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Firenze, 13 luglio 2019 – Eugenio De Signoribus continua la sua auscultazione del reale affidandosi allo strumento per lui più naturale, più affidabile e più remunerativo: la scrittura poetica. Una riconferma di fiducia all’insegna della poesia che si innesta, acquistando rilievo, su un corpus continuativamente maturato e cresciuto nel corso di un’esistenza: dagli esordi datati anni Settanta alle poesie che compongono Trinità dell’esodo.

Con Trinità dell’esodo De Signoribus si riconferma voce autentica e di rilievo della poesia italiana di oggi. Non ad oggi risale, però, la mia conoscenza di Eugenio e la stima per il suo lavoro, appartato e discreto quanto valido ed incisivo. A fondare questa affezione, a determinarla e poi a sostenerla e lungamente alimentarla è stata soprattutto una comune idea del fatto poetico: un’idea del fatto poetico come fatto, tra le moltissime altre definizioni e caratterizzazioni possibili, storiografico, pienamente, compiutamente culturale in un senso in cui la contiuità e l’impegno che quella continuità impone per essere credibile e certa fanno un tutt’uno.

Un fatto sostanzialmente definibile in senso costitutivo linguistico in cui, diciamo ancora ed in altro modo, per essere davvero originali e tornare ad essere plausibilmente originari, bisogna prima essere stati ciò che siamo, con consapevole conoscenza dello stato delle cose che ci spinge – noi tutti fruitori di poesia – alla ricerca di nuovi territori, alla conquista di ulteriori approdi, di inedite propettive da cui guardare il mondo.

Dicendo questo s’introduce quasi da sé, per via dinamica di andare, una modalità comportamentistica che si concentra in una delle figure portanti, di valore simbolico, di Trinità dell’esodo: quel viandante che – anche a volere circoscrivere di molto, per sinteticità, il discorso alla poesia moderna – va da Baudelaire a Pastonchi, da Ceccardo e Sbarbaro, a Cattafi e a Raboni, passando almeno per Luzi sub specie medievalistica di pittore immaginato di ritorno a Siena da Avignone e per il Caproni argutamente ciarliero e riassuntivo, in vena di educati e taglienti parlari e congedi ferroviari, da Viaggiatore cerimonioso, appunto.

E mettiamoci anche il celeberrimo, laureato “altro Eugenio”, l’Eugenio Montale degli Ossi di seppia, che molto tempo prima di farsi l’emblematico camminante Arsenio tardivamente subentrato nella seconda edizione della silloge, firma il notissimo osso breve Meriggiare pallido e assorto…: lirica in cui, per via di inedite asperità di linguaggio fatte spuntare su base dannunziana e pascoliana, nel cielo che abbaglia e seguitando una muraglia che ha in cima cocci aguzzi si bottiglia, si va; come si va nell’altro osso breve, che piacque tanto a Calvino, Forse un mattino andando in un’aria di vetro…, testo di sapore sbarbariano ma quasi altrettanto canonico in cui, come si vede, l’andare si coniuga (ancora al gerundio, ad offrire il senso dell’azione in diretta) al fatto conoscitivo, alla scoperta della poesia: qui, oltre il travaglio del «male di vivere», un filosofico inatteso e sbaragliante «nulla» dietro le pareti visibili del naturalistico quotidiano.

Ho citato tre nomi di grandi poeti italiani del Novecento che, rivelandosi in Trinità dell’esodo diversamente presenti ed efficienti ai fini della originalità della dizione odierna di De Signoribus, potranno esemplificare bene quanto accennavo all’inizio del mio discorso: con prevalenza luziana, direi, a partire da un titolo bellissimo, commentabile come del resto Rodolfo Zucco nella sua bandella di presentazione opportunamente fa.

Un titolo, aggiungiamo, che in De Signoribus allenta e modernamente concretizza ogni diretta suggestione sacrale fra dottrinario-teologico e biblico-testamentario, ma nonostante tutto ci riconduce alla suggestione di un modello luziano, e potrebbe persino inaugurare un più ampio discorso sulla poesia e il sacro, il poeta e il santo (fino alle intercambiabilità suggerite da Zanzotto lettore di Turoldo o alla definizione scherzosa su base geografico-territoriale di cui Andrea Cortellessa ha fregiato lo schivo Eugenio: un appellativo che, appunto, il religioso abbinato alla poesia porta solennemente con sé, esemplando magari, nello scherzo che cela verità, sulla definizione di Petrarca impiegata da Verdi nel Simon Boccanegra: il romito di Cupra Marittima, insomma, un po’ come il romito di Sorga.

Marco Marchi

Ciascuno nella propria carne

Ciascuno nella propria carne
sente la prova che ha

e in quell’agone incontra
il sé umiliato o estraneo

e cerca un tessuto vivente
e spinge il sangue comune

malgrado il grido impotente
che nel fondo si svela…

e lì possiamo sentire
che sotto la spessa tela

c’è la speranza offerente
nel turbato alfabeto

un suono occultato
una sillaba ignota

Eugenio De Signoribus

(da Trinità dell’esodo, Garzanti 2011)

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