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Firenze, 20 settembre 2024– Ricordando che il 20 settembre 1945 nasceva a Milano Maurizio Cucchi.
Dai lontanissimi tempi de “Il disperso” (1976) Giovanni Giudici, patrono partecipe del consenso accordato a un’opera prima di rilievo, aveva pronosticato a Maurizio Cucchi notevoli possibilità di futuro, rilevando tra le note caratteristiche del pressoché esordiente e già maturo poeta “un registro linguistico programmaticamente medio, ispirato da un ironico pudore”. Quel futuro per Cucchi c’è stato; ma nel compiere il cammino – questo l’interrogativo che mi preme affrontare – Cucchi si è trovato a dovere rinnegare in qualche modo la sua partenza, la sua nota distintiva ad inaugurazione di percorso?
Dico subito di no. Perché? Perché la sua poesia – da “Il disperso”, “Le meraviglie dell’acqua”, “Glenn” a “Per un secondo o un secolo”, “Vite pulviscolari” e “Malaspina” – è rimasta in contatto con una fondamentale propensione al marginale, al minimale, al “disperso”, pronta a farsi voce non gridata, vicenda che una volta individuata nei suoi fili segreti tende a farsi piana comunicazione.
La storia del mondo continua ad avvenire, per Cucchi e per i suoi personaggi, all’interno di una stanza in cui tutto succede per rifrazioni ma realisticamente: un luogo appartato dove è necessario dedicarsi, pudicamente appunto, e con assoluta pazienza, all’auscultazione dell’impercettibile, alla valorizzazione del particolare portatore di vita che vi si insinua lasciandovi tracce.
Come Camillo Sbarbaro, Cucchi crede alla vita e alla dialogicità del messaggio poetico: crede alla vita cercandola nei licheni di un linguaggio esente da fantasmagorie grossolane e modellato e solo appariscenti e piuttosto si sorprendenti, attendibili e veritiere esplosioni al microscopio. La grandiosa rivelazione che investe il già catalogato non è paragonabile per lui all’attrazione esercitata da un elementare dettaglio indicativo cui nessuno presta e ha mai prestato attenzione: rilevarne l’esistenza è già il potenziale racconto di un’avventura e insieme la spinta a comunicarla in quel modo, con quella precisione.
Una resistente vocazione stilistica alla ‘medietas’ solo a sprazzi convenientemente impreziosita restituisce così, nella poesia di Cucchi, i miracoli e le crudezze di queste disamine, azzerando ogni effetto amplificatorio di supporto e confidando soltanto, al contrario, anche nei più trepidi e appassionati momenti di dolcezza, in un’estrema pulizia di linguaggio: una pulizia garante dell’esattezza del dire.
Marco Marchi
L’aria d’intorno chissà come
L’aria d’intorno chissà come
placata, e frizzante, e la gente
a spasso sospesa, aerea,
lentissima, vacante
e indifferente a un traguardo,
all’azione, al profitto, ma
più vaga nel giorno, nel chiaro
mattino di luce e parte
persuasa infine del tutto diffuso,
in aperta adesione e armonia,
nel presente assoluto, animato
dalla pace normale dell’esserci
senza conflitti o sfide, senza
miserabile calcolo, ma
nella pace e nella più normale
armonia discreta dell’esserci.
Maurizio Cucchi
(da Malaspina, Mondadori 2013)
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