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Firenze, 7 aprile 2022 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Daria Menicanti (Piacenza, 6 aprile 1914).
Sta stretta a Daria Menicanti una nozione di poesia come ricorso alla lingua del sentimento, di un sentimento per di più che comodamente, senza imbarazzi, può essere effuso e reso transitivo in nome di un sentire che umanamente accomuna poeta e lettore. La Menicanti, insomma, interprete sì dell’umano e della confessione, ma attraverso i filtri di una passione intellettuale che articolandosi in cultura, in consapevolezza e finanche in tecnica, in minuto, quotidiano e paziente artigianato, aspira all’artificio, all’arte, a ciò che a tutti gli effetti è una creazione, o come altri con linguaggio più asettico potrebbe definire un prodotto.
In altri termini i “miracoli” di Daria Menicanti dovrebbero apparire di più impegnativi, conquistati miracoli, anche quando la leggerezza del risultato e la sua sconcertante naturalezza metteranno fortemente in crisi anche il lettore di poesia più smaliziato, più al corrente degli ingredienti e delle piccole astuzie con cui, bene o male, anche i prodigi si fabbricano.
Il fatto è che la tanto decantata autenticità della Menicanti è prima di tutto una autenticità della poesia. Pensiamo all’amore, a questo top dei sentimenti che non accenna a volersi far spiazzare da una posizione ai vertici conquistatasi fin dalla notte dei tempi. Trovo interessante che anche nella mia personale storia di lettore della Menicanti proprio l’amore si sia puntualmente presentato – più che un tema ricorrente – nella valutazione delle punte di maggiore responsabilità distintiva e qualificante di quella espressione artistica, ma sempre in compagnia della poesia, fino a casi sensibilissimi di enucleabile citazionismo o se si vuole di riscrittura per i quali Saffo, Catullo o un più vulgato chansonnier del Novecento in cui la Menicanti ha vissuto funzionano allo stesso modo, estremizzando in maniera quasi didattica la portata e l’irrinunciabilità della poesia come storia di parole.
Non è una questione psicologica di pudore. tutt0’altro. Basta leggere L’amore (non) è eterno e le altre due epigrammatiche composizioni che qui si presentano per ritrovarsi al centro di quella dialettica costitutiva vero/falso che è alla base dell’elaborazione poetica. E’ anzi non secondariamente importante che, auspice di questo spostamento nelle zone fondanti della poesia, sia proprio, non tradito, l’amore, il trattamento di un motivo.
Nel recensire con l’acutezza che gli era propria Un nero d’ombra, Luigi Baldacci proponeva a suo tempo a chiusura d’articolo, divertendosi, un’alternativa in chiave citazionale al titolo di quel libro: Umana, troppo umana. In quel “troppo” vorremmo vedere adesso l’infrazione che, comunque si connoti, apre alla letteratura, indica altri spazi esistenzialmente e umanamente praticabili. E vorremmo chiedere soltanto, con una simile coscienza delle cose difficili e delle cause perdute in partenza, se non esistano anche per la poesia di Daria Menicanti, come per l’amore, non necessariamente coincidenti, stagioni da preferire, paesaggi e scenari in cui ritrovarsi calati “è meglio”.
Marco Marchi
L’amore (non) è eterno
Non può durare. Certo non durerà.
Si attacca l’amore smaniando
al tuo corpo bruciante e corre ad altre,
eterno solo in questa sua vicenda.
Il resto che si dice è peste e corna
di poveri poeti.
Epigramma per il cuore
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
Io non capisco come mai la gente
non se ne avveda mentre quello va
tambureggiando sospeso nel petto
e non sosti interdetta a domandarsi
qual che si sia e chi fa.
Lieto fine
C’era una volta che mi innamorai
di uno sino a conviverci.
Ma lui cercava una perpetua rissa
e applausi femminili al suo nome
e l’affannata attesa per ognuno dei suoi ambiti ritorni.
Ora il suo battelletto se n’è andato
lontano. In compagnia di un dappoco
oggi mi annoio. Eh, sì:
meravigliosamente mi annoio.
Daria Menicanti
(da Il concerto del grillo, Mimesis 2013)
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