VEDI I VIDEO “Alba” , “Congedo del viaggiatore cerimonioso” letto da Roberto Herlitzka , “Preghiera” letta dal poeta , “Il mare come materiale” , Ritratto di Giorgio Caproni
Firenze, 7 gennaio 2022 – Ricordando che il 7 gennaio 1912 nasceva a Livorno Giorgio Caproni.
Ad portam inferi è con tutta probabilità, direi assieme ad Eppure…, la poesia più alta dei Versi livornesi del Seme del piangere di Caproni e insieme, in assoluto, un testo da severissima antologia del Novecento italiano.
La vicenda di Annina, la madre di Giorgio Caproni, è quasi tutta compiuta, il destino e l’impensabile realizzati: «‘Signore cosa devo fare’, / quasi vorrebbe urlare». E’ un’alba – per colei che, mattutina, era un tutt’uno con la luce e il calore vitale dell’alba popolare livornese –, fredda: neppure gli interni difendono più. Freddo il marmo del tavolino del caffè di stazione dove Annina si trova, freddo il cappuccino che dovrebbe aiutarla se solo riuscisse a berlo, fredda la memoria, gelata, incapace di funzionare in quel metafisico luogo di vapori e di nebbie in cui si beve grappa per scaldarsi e anche i cani che accompagnano i cacciatori di passaggio hanno occhi che piangono, annebbiati.
I «giorni più netti» della parola, detta o scritta, sono lontani: non è possibile appoggiarsi nemmeno a questo, tanto gli amati ispiratori-destinatari degli apprensivi messaggi di certificata presenza sono distanti. Si vorrebbe dire, scrivere le raccomandazioni più necessarie, più in contatto con la vita, ma tutto si ferma a quel punto, come le lancette sul quadrante dell’orologio parte della scena. Tutto è vago, indistinto, dolorosamente confuso: «Nemmeno sa distinguere bene, / ormai, tra marito e figliolo». Anche urlare, rispondere con urlo all’urlo della guerra che da tanto tempo è scoppiata, diventa un proposito incerto, una volizione mancata.
Ripensare a questo punto al «cane del rimorso», prima dei cani veri (si fa per dire) dell’Epilogo di All alone o del Becolino. Ripensare ai «magri bar / dove in Erebo è il passo» delle Stanze della funicolare; ripensare magari anche a Nebbia, tra i Versi sparsi del Congedo del viaggiatore cerimonioso. E leggere o rileggere infine, adesso, come un involontario contraccambio amoroso pregresso, Alba, la straordinaria lirica ad apertura del Passaggio di Enea che oggi di Caproni abbiamo scelto (un sonetto): «Amore mio, nei vapori d’un bar / all’alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti!…».
Marco Marchi
Alba
Amore mio, nei vapori di un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitio tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte,
qui, col tuo passo, già attendo la morte.
Giorgio Caproni
(1945; da Il passaggio di Enea)
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