VEDI I VIDEO “L’acqua si lamenta” letta dall’autrice (da 7:18; con Maria Luisa Spaziani) , Ancora a “L’Aquilone”: Margherita Guidacci vs Valerio Magrelli , “Puro di cuore” (attenzione: la foto di questo e del successivo video non è della Guidacci, ma di Sibilla Aleramo!) , “L’imbarco”
Firenze, 18 febbraio 2024 – Come l’acqua paradossalmente assetata di questo testo, anche Margherita Guidacci ha conosciuto nel corso della propria esistenza il dolore, perfino l’incapacità a restituirne in parole la sua tragica morsa; ma ha conosciuto pure una forma di disperazione generatrice di poesia.
Alcuni dei suoi libri più belli, anzi, rimangono proprio quelli all’insegna di un disagio patito sulla propria pelle, frutto amarissimo di un’anima e di un corpo profondamente vessati: Neurosuite soprattutto, del 1970, e Il vuoto e le forme, uscito sette anni dopo con la prefazione di Luigi Baldacci, il celebre critico che con la Guidacci aveva condiviso un magistero accademico sensibile ai valori poetici come quello di Giuseppe De Robertis, il critico a sua volta di Foscolo e Leopardi, il critico di Ungaretti.
Fin da allora la Guidacci si era affermata con una lirica controcorrente, di forte afflato religioso e sostanzialmente antiermetica. Una poesia di «significati in drammatico accostamento» e non di «magici suoni», come si disse; una poesia della chiarezza, da «tersi cristalli» anche se proveniente dall’oscurità dei conflitti, dalla crisi stessa di un’ispirazione sotto il segno della fede e delle speranze ad essa connesse.
A un certo punto il negativo si era imposto, aveva avuto corso: drammaticamente. Basti citare, da Il vuoto e le forme, questo splendido sillogismo della consapevolezza, da cartesianesimo rovesciato o incupito agostinismo degno della Città di Dio: «Non penso dunque sono e non amo / dunque sono e non spero non agisco e non sento. / Vuoto in fronte e alle spalle. Non sono dunque sono: / dunque sono tua figlia, mio disperato tempo».
Poi, all’improvviso e trascinando nella risalita poesia, la solitudine e la sofferenza furono per la Guidacci inaspettatamente annullate da un miracolo d’amore e ne nacquero le liriche di Inno alla gioia, del 1983. La poesia si fece allora esultanza, divenne inno rivolto a quella gioia, inducendo a sperimentare fin dalla scelta del titolo di un canzoniere così prorompente, così pieno e certo di sé, la retorica di citazioni ritrovate negli altri. Sì: Inno alla gioia, e non come un facile segnale culturalistico, ma come necessità, come sorgiva invenzione nonostante Schiller e Beethoven.
E ne nacquero versi come questi, irrefrenabili e tripudianti, fermi e gioiosi pure nel ricordare ciò che fu: «Il dolore / era piombo e pietra e mi chiudeva in me stessa. / Ogni giorno una nuova cerchia di mura, / un nuovo giro di catene. // Ma la gioia / mi dilata ora dal centro del cuore / fino agli orli vibranti del mio essere – / leggera come un fiore che apra i suoi petali… / No, più leggera. Io sono spazio e luce. / Sono il crocevia di liberi venti» (Dal dolore alla gioia).
Marco Marchi
L’acqua si lamenta
L’acqua si lamenta.
Ho sete! Ho sete!
Sono bruciata
da una fetida melma,
dal verderame degli acidi.
Sono soffocata
dai pesci morti e gonfi.
Grossi aculei di ferro
rugginoso mi pungono
la tenera gola.
Una sorda febbre
mi divora,
Datemi, vi prego
un goccio… di che?
Di che? Questo è il problema
Davvero insolubile!
E a mi chi potrà dar da bere
se anche l’acqua ha sete?
Margherita Guidacci
(da Il vuoto e le forme, Rebellato 1977)
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