VEDI I VIDEO “Ti rubarono a noi come una spiga” , “Una madre” e “Il grano del sepolcro” , “Ricordo di Rocco Scotellaro” di Mario Carbone (1962) 

Firenze,  19 aprile 2015 – Ricordando che il 19 aprile 1923 nasceva a Tricarico (Matera) il poeta Rocco Scotellaro.

Nella poesia del lucano Rocco Scotellaro si impone costantemente l’urgenza di una comunanza: una comunanza che è tutt’uno con l’idea stessa di poesia come valore sociale, nel quadro di quel Sud arretrato e postbellico, ansioso di rivendicazioni e allineamenti, in cui la sua presenza letteraria e umana, da impegnato sindaco-poeta socialista di Tricarico (eletto nel 1946, quando Rocco aveva solo ventitré anni), si affermò.

Questa impellenza sinteticamente si articola e si lascia cogliere in un suo celebre testo dal titolo Sempre nuova è l’alba: «i vostri fiato caldi, contadini», «il nostro vento disperato»; e tra quei due possessivi un verso come «Beviamoci insieme una tazza di vino!», in cui linguisticamente la contraddizione esplode tra l’uso verbale riflessivo-popolaresco di quel «beviamoci insieme» e quella «tazza» classicheggiante.

Altrove l’esito contrappositivo è più piano, quasi didattico nell’ancor più evidente, concentrata giustapposizione dei suoi indicatori sensibili: «Mettete il vino, beviamo stasera» (La pioggia). E si ricordi la tarda Cena, scritta a Portici sullo scorcio del 1952, dove di nuovo a sera – ed è già memoria – il poeta dichiara di volersi sentire come un tempo ancora in compagnia. Con lo scarpaio, con il fabbricatore, con il sarto, Scotellaro recupera una forma di conciliazione psicologica con se stesso e con il suo gruppo d’appartenenza come altrimenti, in una ben diversa ma paragonabile circostanza storica foriera di novità, drammi e inedite  possibilità di proiezione, Piero Jahier con sé e con gli alpini.

Sta di fatto che nella poesia di Scotellaro il «noi» aspira a diventare un istituto grammaticale resistentissimo, valido però per via di negazioni. Poeticamente la libertà del poeta è nel non potersi sentire sempre a casa, in famiglia, a un tavolo di cucina, parte di un insieme compatto, solidale ed antropologicamente individualizzabile.

«Profeta e apostolo di un risveglio contadino, voleva essere Rocco Scotellaro – notò suo tempo Vittorio Spinazzola –. Ma a trattenere questo empito c’era un’inquietudine invincibile, che lo respingeva dalla comunione attiva con gli altri nella solitudine frustrata dell’io». E ancora Spinazzola indicava nell’opera di Scotellaro, in versi e in prosa, «un punto di riferimento psicologicamente rivelatore nel ritorno assiduo dell’immagine paterna».

Il padre è un topos della poesia meridionale: basti pensare a Sinisgalli. Ma in Scotellaro, l’autore di E’ fatto giorno, Margherite e rosolacci, Contadini del Sud L’uva puttanella morto precocemente all’età di trent’anni, il confronto con la figura paterna si dilata, assume rilevanza e significati su un più largo spettro nella misura in cui, nei più diversificati luoghi della sua scrittura, si parla di «fratelli» e «fratellastri», o si tiene scrupolosamente a distinguere tra «amici» e «fratelli» nell’impiego estensivo di un termine che rimanda alla vita affettiva: vita affettiva primaria e profonda, di tipo familiare e semplificatamente genitoriale, larica, cui anche l’ancestrale e mitologica figura materna di Francesca Armento inevitabilmente partecipa.

Padri amati e freudianamente odiati, sempre traditi e uccisi, e madri altrettanto amate e altrettanto dubitate, che metteranno in crisi a livello di conoscenza culturalizzata e di rivendicabile utilità civile del fatto letterario il rapporto di Scotellaro con l’esercizio della poesia: la sua stessa generosa e promettente ambizione, come scrisse Montale, «a diventare un letterato con tutte le carte in regola».

Marco Marchi

Ti rubarono a noi come una spiga

Vide la morte con gli occhi e disse:
non mi lasciate morire
con la testa sull’argine
della rotabile bianca.
Non passano che corriere
veloci e traini lenti
ed autocarri pieni di carbone.
Non mi lasciate con la testa
sull’argine recisa da una falce.
Non lasciatemi la notte
con una coperta sugli occhi
tra due carabinieri
che montano di guardia.
Non so chi m’ha ucciso
portatemi a casa,
i contadini come me
si ritirano in fila nelle squadre
portatemi sul letto
dov’è morta mia madre.
O mettetevi qui attorno a ballare
e succhiate una goccia del mio sangue
di me vi farà dimenticare.
Lungo è aspettare l’aurora e la legge
domani anche il gregge
fuggirà questo pascolo bagnato.
E la mia testa la vedrete, un sasso
rotolare nelle notti
per la cinta delle macchie.
Così la morte ci fa nemici!
Così una falce taglia netto!
(Che male vi ho fatto?)
Ci faremo scambievole paura.
Nel tempo che il grano matura
al ronzare di questi rami
avremmo cantato, amici, insieme.
E il vecchio mio padre
non si taglierà le vene
a mietere da solo
i campi di avena?

Rocco Scotellaro

(da È fatto giorno)

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