VEDI I VIDEO  “Requiem”, Patrizia Valduga dice suoi testi Archivi del Premio Letterario Castelfiorentino: Patrizia Valduga si racconta, prima parte (con un sonetto di Petrarca) ,  … e seconda parte , Il sonetto “Donna bambina ma di troppe brame” detto da Patrizia Valduga

Firenze, 19 gennaio 2024 – Presenza poetica di assoluto rilievo nel panorama letterario contemporaneo, poetessa naturalmente dotata e colta, Patrizia Valduga ha fatto della poesia fonte di piacere e terapia per attutire il dolore mediante la musicalità dei ritmi e dei suoni appannaggio dell’esercizio lirico. Attraverso una personalissima ricerca stilistica iniziata con Medicamenta (Guanda 1982), lo sbaragliante libro d’esordio, la poetessa ha affrontato – inserendosi da protagonista in un contesto storicamente allargato ed efficiente – la crisi del linguaggio poetico moderno, riuscendo a conferirgli nuova dignità letteraria grazie a un deliberato, originale recupero delle forme più illustri della tradizione: sonetti, madrigali, sestine, ottave e terzine. A tale recupero la Valduga ha abbinato, con esiti sorprendenti, la ricerca di un’espressione in cui l’antico e il moderno, l’aulico e il quotidiano, il sublime e il volgare, si coniugano e si contaminano.

Dopo La tentazione (Crocetti 1985) e i testi aggiunti di Medicamenta e altri medicamenta, il monologo in endecasillabi Donna di dolori (Mondadori 1991) conferma tra poesia e teatro questa strenua vocazione al canto d’ispirazione erotico-funeraria. Diverso il tono di Requiem (Marsilio 1994, poi Einaudi 2002), poemetto in ottave scritto per la morte del padre, dove l’esperienza immanente della morte volge l’originaria fascinazione manieristica della dizione poetica nella misura di una naturale, addolorata e sconvolta effusività.

Con le raccolte successive, Cento quartine e altre storie d’amore (Einaudi 1997), Quartine. Seconda centuria (Einaudi 2001), il poemetto Manfred (con la collaborazione del pittore Giovanni Manfredini, Mondadori 2003), Lezione d’amore (Einaudi 2004), si riattiva in forme metriche sempre più elaborate la schermaglia della scrittura. In Corsia degli incurabili (Garzanti 1996, raccolto in Prima antologia, Einaudi 1999, e al pari di Donna di dolori rappresentato in teatro) è di scena un malato terminale che dal suo letto di ospedale dà voce ai propri pensieri nel metro del sirventese classico, raccontando tra l’invettiva e la preghiera, la confessione e lo sdegno, la degradante attualità del nostro paese, la corruzione delle istituzioni, la decadenza della cultura e della lingua.

Nel 2006 la Valduga firma la Postfazione a Ultimi versi di Giovanni Raboni, che comprende le poesie composte nell’estate del 2004, durante la malattia del poeta. Sono i “versi veri e vivi” che aprono il Libro delle laudi (Einaudi 2012), un nuovo intenso canzoniere che rilancia sulla scia dei laudari antichi il furor sacro di una moderna coscienza poetica. Recentemente apparso, infine, dopo le Poesie erotiche del 2018, il poemetto Belluno (2019, ambedue Einaudi).

Patrizia Valduga ha inoltre curato l’antologia Poeti innamorati. Da Guittone a Raboni (Interlinea 2011) e il Breviario proustiano (Einaudi 2011). Notevole la sua attività di traduttrice, da Mallarmé, Valéry, Molière, Donne, Céline, Kantor, Shakespeare, Pound. Ha ricevuto premi e riconoscimenti, tra i quali il Premio Viareggio, il Premio Betocchi, il Premio Castelfiorentino e ultimo, a Pistoia, il Premio Maddalena Morelli ‘Corilla Olimpica’.

Marco Marchi

da Requiem

Ah Signore pietà, Cristo pietà,
per quest’anno di vita irredimita,
del suo sangue nel mio sangue, pietà,
della carne nella terra incarnita
fino a ansimare, per pietà, pietà!,
che vivo la sua vita seppellita,
che vivo inutilmente e inutilmente,
e la parola mi si perde o mente.

Ah padre mio, non faccio che tremare,
e stare dentro me col mio dolore,
piangermi in te, piangermi in te e tremare.
Ti prego, aiutami, pensa al mio cuore,
fammi uscire da me, fammi trovare
favole di pietà, versi d’amore…
Versi d’amore come ai miei vent’anni!
Padre, il mio cuore compie oggi due anni.

Oh, prima ch’io ritorni là con te,
fammi avere qualcosa da portare,
un piccolo qualcosa dentro me,
e non quest’ansia sola, e questo ansare.
Fa’ che possa portarti dentro me
qualcosa perchè possa ritornare
e dirti, padre: «Vedi che ho vissuto:
in me il tuo cuore, no, non si è perduto».

«Patrizia, adesso basta! Per favore.
Vuoi farla eterna quella stomatite?
E la tua forza d’animo? Di cuore?…
Basta con quelle ghiandole impazzite!
Non ricordi? È d’altro che si muore…
Adesso vivile le nostre vite!»
Papà, dimmelo ancora, è così vero…
Ridimmelo, ravvivami al mio vero.

Ecco, papà, io non so dare un nome
a questa nebbia che mi fuma intorno
e che mi nasce dentro e non so come
e mi impedisce la luce del giorno,
e senza nome vivo nel tuo nome,
nella tua luce che non fa più giorno
dal millenovecentonovantuno,
dal due dicembre, al sole di Belluno.

Oh! Angeli del tempo, vi scongiuro,
ridategli il suo volto e la sua voce,
ditegli di venire al limbo oscuro
dove fluisco verso la mia foce;
che senta la sua voce, vi scongiuro,
senza più tempo, senza terra e croce,
che non mi senta più così insensata
quando la mente si sarà calmata.

Papà, ho la rettocolite ulcerosa:
intercedi, proteggi, benedici.
Sanguino sempre, sempre più paurosa
del mio sangue, di tutto… Benedici.
E nella mente dove c’è ogni cosa
tornerò a quando eravamo felici,
stringerò la tua mano che conduce
al coraggio, e nel regno della luce.

Sono poveri versi di preghiera,
reliquia miserabile e funesta,
per sposare quell’alba alla mia sera
nella mia testa, in quello che mi resta
della testa, perchè ogni gioia vera
è stata solo dentro la mia testa,
e scrivo sangue invece di parole:
ritorna, alba di viole. Alba di viole!

Se ti avessi ascoltato quella volta,
io cocciuta, cocciuta ed incosciente,
la giovinezza che mi è stata tolta
me la sarei goduta corpo e mente.
Ma la maturità perchè mi è tolta?
Papà, io vivo vergognosamente
vecchia e malata e sempre adolescente
matta di un sogno che non vuol dir niente.

Palpito d’ali al limite del volo,
tu, palpito di piume tutto ali,
per questo giorno, per un giorno solo,
cavami via da questi criminali,
portami un po’ di giorno, un senso solo
in questa notte postuma di mali,
ché neanche la speranza mi è concessa,
ché vivo come ai piedi di me stessa.

Patrizia Valduga

(da Requiem, Einaudi 2002)

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