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Firenze, 15 luglio 2019 – Notava Montale in un suo memorabile intervento dedicato a “La Beltà“, che in Andrea Zanzotto si esprime “il tragico dissidio tra quella che i cristiani dicono anima e ciò che gli scienziati dicono psiche”. Indicando questo nodo, Eugenio Montale coglieva nel segno circa attualità e futuri sviluppi dell’opera del poeta, illuminandone tecniche e strategie messe in atto nel rispondere per via scrittoria a tale rilevazione, a tale insopito, rinascente bisogno di accertamento: “Zanzotto non descrive, circoscrive, avvolge, prende, poi lascia”.
È così, in effetti, che Zanzotto si muove tra i materiali fonico-immaginativi che affollano il suo formidabile e interminabile laboratorio di poeta novecentesco fatto di sostanze semantiche e presemantiche, combinazioni grammaticali e pregrammaticali, soluzioni linguistiche e prelinguistiche, costantemente alla ricerca della pietra filosofale che gli permetta di riprodurre in versi la fabula straniante individualissima che chi scrive sta vivendo. Il poeta perviene in tal modo – cito ancora da Montale – ad una “poesia inventariale che suggestiona potentemente e agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore”, bilanciandosi tra individuazione di se stesso e relazionalità con il reale mediante una sorta di “mobilità insieme fisica e metafisica”.
Una “mobilità insieme fisica e metafisica”. Sta di fatto che, nel leggere l’alta, storicamente autorizzata e paradigmatica poesia di Zanzotto viene un momento in cui l’effetto dello stupefacente poetico-espressivo raggiunto e comunicato, disposto anche in chi lo recepisce a tutte le possibili arditezze acrobatiche per via di interferenze e sprofondi semantici, nessi analogici e simultaneità, cessa, si annulla, e la mente, sgombra di lusinghe ammiccanti e fascinazioni, riacquista di colpo piene facoltà coscienziali: facoltà accresciute, potenziate dall’esperienza della quale è stato al centro, sperimentando di persona, all’apice della fruizione artistica consentita, l’ontologica compresenza dei due livelli.
In altri termini, quando le parole di Zanzotto “lasciano”, è inevitabile il subentro o meglio il valorizzato ritrovamento del giudizio, dell’istanza razionalistica alla chiarificazione critica di ciò che la visione trasfigurante, imponendosi magicamente con i suoi tratti e i suoi specifici attributi fascinatori all’attenzione, accantonava o pretendeva per un momento almeno di potere omettere. Un analogo, quintessenziale e sincretistico percorso tra emozione e riflessione, Es e coscienza, che ci riconduce in campo storiografico-artistico a quell’ineludibile bivio novecentesco tra l’ordine e la pulsione e nell’universo espressivo del poeta ai suoi magnifici cortociruiti della scrittura in cui tout se tient.
Marco Marchi
Esistere psichicamente
Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
– soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli –
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch’io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d’inferno
degli atomi e il conato
torbido d’alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.
Andrea Zanzotto
(da Vocativo, 1957)
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