VEDI I VIDEO “La Chimera” letta da Vittorio Gassman , … e da Carmelo Bene, “La Chimera” secondo Aion Teater , Scene da “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido (2002)
Firenze, 9 gennaio 2019 – Campana, prima che il conato vocativo che sigla la sua celebre La Chimera si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, confessa una sua incapacità: “Non so se…”. Ma è proprio da questa incapacità dichiarata e subito chiamata in campo, da questa condizione di instabilità e insicurezza immediatamente esibita e partecipata al lettore fattasi incipit sonoro, primo accordo della partitura lirica, che la modernità della sua poesia si emancipa.
L’invocazione di Campana per dirsi compiutamente si fa visione, visività pronta già a sua volta, investendo e confondendo piani e pertinenze del reale, visionarietà. Il naturalismo e l’impressionismo nella poesia dei Canti orfici deflagrano, il simbolismo biologico e nel contempo storiograficamente coniugato di Campana si fa cangiante, si drammatizza, straripa e trabocca dappertutto, mentre l’espressionismo è pronto ad ogni passo a trionfare e divampare, incupendo con la sua scura fiamma ogni perlaceo scenario della suggestione, ogni parvenza del reale abbellita da nuances, impreziosita da luminosi aloni di superficie esistenzialmente fallaci, solo seduttivi ed ingannevolmente avvincenti o consolatori.
La poesia dei Canti orfici è poesia culturalizzata, è sempre bene precisarlo, e anche negli storiografici termini attraverso i quali stabilisce la propria incidenza di messaggio si dimostra poesia impossibilitata a rivendicare comodi contrassegni identitari, facili abitabilità e domiciliazioni: “lineamenti fissi”, potremmo dire, “stabili possessi” citando un celebre “osso breve” che pochi anni dopo avrebbe scritto Eugenio Montale, rivolgendosi non alla Chimera ma tout court alla propria vita.
Quel Montale cantore della negazione della parola che «squadri da ogni lato» un’umana «anima informe»; quel Montale in attesa del miracolo conoscitivo della poesia che trova in un avverbio dell’incertezza – come in Campana e come in un celebre sonetto di Foscolo, Alla sera – l’attacco di una altro suo “osso breve” come Forse un mattino andando…; quel Montale che in veste di critico, lettore dotato di poesia altrui, tra vita e cultura, psicologia e linguaggio, definirà mirabilmente la poesia di Dino Campana nei termini di una «poesia in fuga», cogliendo in una sorta di sempre inappagato, sintattico e musicale dinamismo l’alto grado di instabilità da cui la stessa richiesta di poesia avanzata dal poeta e da lui strenuamente perseguita muove, ad essa sostanzialmente ritornando ma in espressionistici e visionari termini d’arte realizzata, per imprevisti straripamenti ed esondazioni di senso.
E’ un regime dell’incertezza, del probabilismo che niente risparmia, che tutto investe; e la veggenza si fa erranza, richiamo accondisceso a quegli oscuri luoghi dell’”altrove” e della “seconda nascita” di cui un altro grande poeta del primo Novecento, l’autore delle Elegie duinesi, Rainer Maria Rilke, ci parla. Analogamente, coerentemente, la poesia dei Canti orfici sarà poesia della notte, e Campana sarà poeta per antonomasia “notturno”, espressamente disposto secondo queste modalità e questi connotati di afferenza orfica a certificarsi internamente a un testo come La Chimera.
Campana scrive d’altronde, prosimetricamente aperto, le stupende pagine della Notte, come si fa evocativo, impaurito e impavido cantore del Canto della tenebra, riconfermando attraverso questa vocazionale e programmaticamente rafforzata frequentazione del buio e della profondità la sua appartenenza a forme e prospettive del moderno: una modernità di inizi secolo in sintonia con le parallele, sbaraglianti scoperte della scienza culminate nell’opera di Sigmund Freud.
Marco Marchi
La Chimera
Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Dino Campana
(da Canti orfici, 1914)
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