VEDI I VIDEO Carmelo Bene legge Dante (da “Inferno”, canto XXVI) ,  Il Conte Ugolino secondo Carmelo Bene , “L’Inferno” di Giuseppe de Liguoro (1911). Film completo! , “Nostos” di Vinicio Capossela

Firenze, 29 maggio 2024 – Ricordando che oggi ricorre l’anniversario della nascita di Dante Alighieri, avvenuta a Firenze presumibilmente tra il 22 maggio e il 13 giugno 1265 e tradizionalmente fissata al 29 maggio 1265.

Un esempio emblematico e davvero indimenticabile dell’arte interpretativa sopraffina di Carmelo Bene si ha alla fine della «lectura Dantis» di oggi. Un unico ma incontrovertibile esempio della genalità dell’attore. Si ascolti solamente come Carmelo Bene recita i versi che suggellano il racconto che del «folle volo» fa Ulisse, e cioè i versi 141-142 del canto XXVI dell’Inferno che dicono «e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

// infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»; si ascolti e ci si stupisca, ammesso che lo stupore non si sia già impadronito di voi, di fronte all’assoluta straordinarietà di un’intepretazione che qui, a conclusione di brano, magnificamente rende visibili il terribile sprofondamento della nave di Ulisse e il successivo ricomporsi della superficie delle acque.

Grande Carmelo Bene! Analogamente, nell’interpretazione dantesca a lui massimamente congeniale dei versi del Conte Ugolino, canto XXXIII dell’Inferno, si valorizzi (vedi secondo allegato) lo schioccato, efficacissimo «La bocca…» con cui l’attore dà il via alla sua lettura per capire subito a quale altra splendida prova di recitazione siamo introdotti.

Seguono nei video odierni, proposti come intriganti curiosità (volevamo scrivere «ghiotte curiosità», ma il riferimento al Conte Ugolino ce lo ha presto sconsigliato), il film muto del 1911 di Giuseppe de Liguoro L’Inferno (con lui alla regia Francesco Bertolini e Adolfo Padovan) e un mix citazionale di genere colto (soprattutto Dante e Itaca di Kavafis) per la voce e la musica di Vinicio Capossela: canzone datata 2011, cento anni dopo il film

Marco Marchi

Da «Inferno», canto XXVI

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:



«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco



quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».



Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;



indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse:

«Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,



né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,



vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;



ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.



L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.



Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,



acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.



“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.



Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.



Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;



e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.



Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.



Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,



quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.



Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.



Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,



infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».


Dante Alighieri 

(dalla Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli, Bologna, 31 luglio 1981, nell’anniversario della Strage della Stazione)

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