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Firenze, 17 luglio 2019 – Ricordando che oggi ricorre l’anniversario della nascita di Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909).
Spettò a Silvio Ramat curare tredici anni fa un molto atteso Tutte le poesie di Alfonso Gatto, un sostanzioso volume pubblicato negli «Oscar» di Mondadori che avrebbe senz’altro meritato, però, la più solenne consacrazione di un «Meridiano»; un volume forse in grado, tuttavia, di rinverdire il ricordo del poeta presso la contemporaneità. Nonostante tutto, invece, Gatto resta ancora un poeta un po’ in disuso, da non esaltanti quotazioni nel mercato delle lettere, tra gli addetti ai lavori come tra il pubblico dei lettori.
Eppure Gatto, nella sua certa originalità di ispirazione e di percorso, è stato, nel Novecento in cui si inquadra la sua parabola di uomo e di artista, quasi tutto: da poeta ermetico-surreale, per intenderci, a poeta civile e resistenziale, nella cifra di Isola e Morto ai paesi (e magari delle poesie per bambini del Sigaro di fuoco e del Vaporetto) come in quella della Storia delle vittime.
Nemmeno tale disponibilità, nemmeno tale apertura, sembra tuttavia avergli fruttato una congrua presenza nella memoria. Perché? Probabilmente perché la sostanziale unitarietà della sua vena, al di là delle apparenze e di qualche sperpero, appare tutta giocata sul filo del «canto»: di quella facilità melica che ha fatto a suo tempo pensare a Giuseppe De Robertis al partenopeo Salvatore Di Giacomo e ha fatto rimpiangere per il salernitano Gatto un mancato poeta in dialetto.
Ma è proprio ne La storia delle vittime, laddove il dono innato di Gatto è più esposto a rischi e per così dire messo alla prova, e dove una continuità musicale pare subire di proposito colluttazioni e forzature – da dirottamenti nell’effetto-prosa a veri e propri sconfinamenti in enfasi e retorica –, che la poesia si prepara ai suoi esiti maggiori: La forza degli occhi, Osteria flegrea, soprattutto le splendide Rime di viaggio per la terra dipinta del 1969 e le terminali, notevoli Desinenze, dove con magistrale e inintaccata confidenza canora prende corpo quel sottovalutato gioiello di autobiografia in versi che è Il guardiano del faro.
Da Isola a Desinenze, senza dismettere la cetra, per via melodica, come nel melodramma Bellini e Mascagni insegnano: anche (soprattutto) al cospetto dell’amore negato e del male, secondo gli esempi melodrammatici utilmente richiamabili di Norma e di Iris. È qui – propiziata dall’immagine larica di Erminia, la madre morta che cuce e rattoppa, e investita dall’ibrido e mitizzante spazio-tempo di una storia sterminatrice e sanguinaria – che la lirica di Gatto giunge, io credo, alle sue massime epifanie: alle maggiori possibilità definitorie di «autoritratto», volendo, di un poeta-pittore abitato dalla musica in tutte le sue gamme, da Petrarca a Palazzeschi, tra virtuosismi al quadrato e infantili «trallarallà».
Ed ecco il nuovo Orfeo a riflettere, a ‘ragionar cantando’ in magnifici versi come questi: «Dovrò perderti sempre, amore vano / – io mi dicevo – vandalo di rose / perdute senza coglierle, un insano / destino questo giungere alle soglie / della musica, inerme al ventilare / dell’abito che fugge nella stanza / col suo fantasma di pudore» (Il guardiano del faro).
Marco Marchi
All’alba
Mia madre all’alba non ha colore
ma il freddo celesti aurore
le porta nel seno,
dolci paesi d’albicocca.
Alle sue mani la musica degli anni,
ascolta come l’oriente sereno
indora i mesti inganni
del suo sorriso.
E d’un palpito ha gli occhi,
d’un soffio il suo viso.
Alfonso Gatto
(da Poesie. 1929-1949)
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