VEDI I VIDEO Io scrivo poesie. Giacomo Trinci ed altri poeti a Castelfiorentino (2005) , Trinci su Italo Svevo, con sue poesie (2012) , Trinci legge da “Inter nos” (da 5:00) , Ancora da “Inter nos” , “Dona eis requiem sempiternam”

Firenze, 13 ottobre 2018 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Giacomo Trinci (Pistoia, 12 ottobre 1960).

Caro Giacomo, con il tuo ultimo “Inter nos”, edito da Aragno, che libro importante, hai scritto! Un libro per il lettore impegnativo quanto bello, e per te per molti aspetti decisivo come può essere un maturatissimo e insieme sorprendentemente rivelatorio bilancio. Ma mi è capitato in questi giorni di rileggere la tua raccolta del 2006, “Senza altro pensiero”, e torno a dirti con rinnovata convinzione: che libro strepitoso anche allora scrivesti! Tutto strazio e delicatezza, limpido e misterioso, “altrove” e al centro di ogni altro pensiero, com’è delle parole della poesia.

Un canzoniere per la madre, “Senza altro pensiero”, in cui continuativamente il lettore si ritrova alle vertiginose altezze della tua opera d’esordio: quell’indimenticabile “Cella” da cui nel 1994 ha preso l’avvio il tuo percorso di poeta, che mi permise allora di riconoscere in te un sicuro poeta della contemporaneità, da ascrivere senza timori a un quadro storico (la militanza, per noi, è proprio questo): Trinci, in una mia silloge di scritti critici, subito assieme a Tozzi, Trinci con Luzi e con Zanzotto (questo con generosa attinenza al vero pubblicamente mi riconosce oggi Paolo Maccari nella sua pregevole, centratissima postfazione ad “Inter nos”).

Quel che è venuto dopo – da “Voci dal sottosuolo” al tuo “Pinocchio” in versi, a “Inter nos”  – è disceso da lì. Ma è con “Resto di me” e con “Senza altro pensiero”, prima del libro ultimo che potremmo definire libro di consuntivo e di crescita, che i vincoli con le origini sono tornai a farsi più stretti, al punto che queste due raccolte mi si presentano come una sorta di splendido, bipartito corollario analitico a quanto “Cella” magnificamente registrava e quanto in “Inter nos” culmina.

L’io – ecco il punto essenziale – risaliva in “Cella” all’”ante-vita” e partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre: si insinuava nella stretta che lo faceva gemere e imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – le suggestioni di Rimbaud e del Pasolini dell’”Usignolo” già si autocertificavano – figlio appeso a quella croce, inchiodato.

Dominava in “Cella” una scena dell’arte che è scena amorosa: due forme di lotta di cui non è dato sapere l’esito, forse neppure le ragioni. Ma lo scontro avveniva, feroce, per via di cultura. Il manierismo di un rimatore d’amore e di tormento come Michelangelo non si risolveva in parnassianesimo a freddo o in vacuo progetto del postmoderno. La lievitazione dei sentimenti, e in primo luogo del sentimento top dell’amore, si trovava piuttosto costretta a delegare i suoi oltranzistici e scandalosi messaggi, per risultare naturale, all’abnorme e al falso, sino alle forzature antichizzanti, linguistiche e di situazione, del melodramma.

Il problema dell’arte e una casistica musicalmente potenziata, di valore archetipico, rivendicavano insomma, da subito, trattamenti e coniugazioni garanti dell’unica storicità concessa a chi scrive poesia, di chi tenta la vita proprio riconoscendo intriso di morte ciò che persegue con il fanatismo di un adoratore di beni intatti, di volti perduti e potenzialmente irremeabili.

In “Senza altro pensiero” la «cella» testualmente ritorna (penso al bellissimo quella era la sua camera – vedete – di p. 33 che qui si propone, ma i pezzi bellissimi non si contano), ed è di nuovo un luogo condiviso di vita e di morte di cui sei il caldo testimone, in cui carnalmente si riassumono e si lasciano raccontare la storia di tua madre, la tua e quella del mondo.

Bianca Garavelli ha scritto per te pagine ammirate e ricche di spunti, giustamente enucleando la funzionale presenza in “Senza altro pensiero” di modelli novecenteschi di “canzoniere alla madre”. Ma mancano i due riferimenti più utili per capire: la «mari fruta» di Pasolini, passeretta sugli sfondi dialettali e in lingua di Casarsa, e quell’Anna Picchi tutta natura e rime aperte dei “Versi livornesi” di Giorgio Caproni.

“Vergine madre, figlia del tuo figlio”, diceva il Poeta ultramondano. E come in Caproni, la tua «canzone» da nido pascoliano può dire alla fine, meglio di Freud, chi l’ha mandata: “suo figlio, il suo fidanzato”.

Marco Marchi 

quella era la sua camera – vedete –

quella era la sua camera – vedete 
ogni giorno è da qui vive con me

da quando poi salendo queste scale
si sentiva più stanca fino ad ora
è qui il mio luogo che sorveglio fisso 
è in un secondo piano ed una porta

a vetri s’apre verso i campi ed oltre.
era stanca, diceva sempre più 
io sorvegliavo da lontano il cuore

io veglio ancora quello che non muore.
ora è ridotto all’osso è solo cella
astratto punto d’un astratto vero
tutto quello che è stato è un morso asciutto
è il sunto di un racconto della carne.

Giacomo Trinci

(da “Senza altro pensiero”, Aragno 2006)

ARCHIVIO POST PRECEDENTI

Le ultime NOTIZIE DI POESIA

NOTIZIE DI POESIA 2012 , NOTIZIE DI POESIA 2013 , NOTIZIE DI POESIA 2014 , NOTIZIE DI POESIA 2015 , NOTIZIE DI POESIA 2016 NOTIZIE DI POESIA 2017 , NOTIZIE DI POESIA gennaio-marzo 2018 , NOTIZIE DI POESIA aprile-giugno 2018 , NOTIZIE DI POESIA luglio-settembre 2018