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Firenze, 20 giugno 2023 – Il 1905 segna, su base fin da allora sicuramente e palesemente culturalizzata, l’atto di nascita di Palazzeschi poeta. Esce infatti in quell’anno il suo primo libro di versi, I cavalli bianchi, raccolta di stampo simbolista: «poesia malata, da manicomio addirittura» (così Marino Moretti nel recensire l’opera d’esordio dell’amico), i cui referenti culturali d’appoggio risultano ravvisati da Moretti stesso in Baudelaire e Mallarmé, Wilde, Maeterlinck e Jammes. In chiave simbolista e crepuscolare, grazie ai Cavalli bianchi, si instaura l’amicizia con Sergio Corazzini, l’estenuato e oltranzistico cantore della rinuncia vitale. In chiave analoga, a stimolare l’interesse di poeti di sensibilità malinconica ma parzialmente contraddetta come Govoni e Gozzano sarà la seconda raccolta, Lanterna, che Palazzeschi stampa a proprie spese nel 1907. Spetterà infine a Poemi, la terza raccolta apparsa nel 1909, sollecitare invece l’entusiasmo ottimistico, robustamente attivistico, rivoluzionario e fagocitante di Filippo Tommaso Marinetti, da poco fondatore del movimento futurista.
Del maggio 1909 è la lettera con la quale Marinetti risponde da Milano all’invio del libro, esprimendo giudizi un po’ generici ma indubbiamente lusinghieri («Vi è – nel vostro volume – come già nei Cavalli bianchi, un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talvolta riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova»), e invitando formalmente lo scrittore fiorentino, secondo una prassi managerialmente inclusiva a lui familiare, a collaborare con i futuristi al «grande rovesciamento della vecchia imbecillità italiana». Palazzeschi – che per suo conto, in solitudine, ha già operato ribaltamenti da «saltimbanco dell’anima» giocati tra vecchio e nuovo, tra “malinconico” e “buffo” – si aggrega, pronto a fornire il suo riconoscibilissimo contributo personale all’impresa.
È l’annessione di Aldo Palazzeschi all’avanguardia, ed è, quello con Marinetti, un incontro umanamente importante per lo scrittore: un incontro professionalmente denso di implicazioni e di possibilità pratiche di affermazione, se i versi dell’Incendiario e il suo romanzo migliore, Il Codice di Perelà appunto, appariranno di lì a poco (rispettivamente nel 1910 e nel 1911) nelle Edizioni Futuriste di «Poesia».
La realizzazione biografica e la realizzazione letteraria che Palazzeschi sta tentando tornano di nuovo ad incrociarsi. La generosa disponibilità di Marinetti ad accogliere, ad inglobare un po’ tutto e tutti all’insegna della distruzione del vecchio e della proposizione del nuovo, consentirà a Palazzeschi, rotto un isolamento psicologico cui già l’esercizio scrittorio aveva offerto testimonianze e fuoriuscite di riscatto, di svolgere in piena autonomia la sua partecipazione alle vicende di un movimento e di effettuare, in termini presenzialistici potenziati, pubblici e per così dire protetti, la continuazione di un suo discorso letterario singolarmente originale.
Analogamente, con la stessa libertà, Marinetti sarebbe diventato il provocatorio e sicuro Principe Zarlino che Perelà abbraccia e ascolta tra le mura manicomiali del Codice. E a ben vedere, questo urgente bisogno del nuovo che sfocerà presto per Palazzeschi in una integrale scoperta del comico era già implicito (e puntualmente rispondente ad una complessiva situazione psicologica allora bloccata) nell’immobilismo ritmico e figurativo dei quadri lirici dei Cavalli bianchi: un bloccaggio formale che corrisponde perfettamente ai movimenti negati di un “io” condannato drammaticamente all’introversione: consegnato alla chiusura e in definitiva alla morte – come si dice nella bellissima La porta che oggi proponiamo – e prima ancora al colpevolizzante, intimidatorio e ossessionante giudizio della “gente”.
Marco Marchi
La porta
Davanti alla mia porta
si fermano i passanti per guardare,
taluno a mormorare:
“Là, dentro quella casa,
la gente è tutta morta,
non s’apre mai quella porta,
mai mai mai”.
Povera porta mia!
Grande portone oscuro
trapunto da tanti grossissimi chiodi,
il frusciare più non odi
di sete a te davanti.
Dagli enormi battenti di ferro battuto
che nessuno batte più,
nessuno ha più battuto
da tanto tempo.
Rosicchiata dai tarli,
ricoperta dalle tele dei ragni,
nessun ti aprì da anni e anni,
nessun ti spolverò,
nessun ti fece un po’ di toeletta.
La gente passa e guarda,
si ferma a mormorare:
“Là, dentro quella casa,
la gente è tutta morta,
non s’apre mai quella porta,
mai mai mai”.
Aldo Palazzeschi
(Da I cavalli bianchi, 1905)
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