VEDI I VIDEO Giuseppe Antignati legge Italo Svevo (dal racconto “Vino generoso”) , Giacomo Trinci parla di Svevo e legge suoi versi dedicati allo scrittore , “Senilità” secondo Mauro Bolognini (1962) , “La coscienza di Zeno” secondo Sandro Bolchi (1988)
Firenze, 19 dicembre 2024 – Ricordando che il 19 dicembre 1861 nasceva a Trieste Italo Svevo.
È stato Svevo stesso a definirsi autore di un unico romanzo e a ricondurre le sue maggiori trasposizioni in personaggi letterari romanzeschi – da Alfonso Nitti a Emilio Brentani, a Zeno Cosini – agli spazi sufficientemente unitari e unificanti della derivazione autobiografica. Nella lettera a Enrico Rocca dell’aprile 1927 l’autore dichiara di avere scritto “un romanzo solo in tutta la sua vita”; l’autoironia – una precisazione ed un commento scherzoso ritenuti necessari – viene a ruota: “Tanto meno perdonabile di averlo scritto sempre male”; che è come dire, al di là delle insufficienze avvertite, che anche l’italiano decentrato, carente ed insicuro di uno scrittore triestino e le difficoltà a padroneggiare la lingua cui un «barbaro» si affida ricreano unità. Vale preliminarmente, ad ogni modo, il rispetto di cronologie e progressioni maturate, di sequenze di immagini volta a volta rese possibili e così scandite, tra convergenze e divergenze, costanti e varianti di autoritratti per differimento, dal concrescere di una propria vicenda esistenziale: tre “fratelli” (così Svevo nell’ancora tardo “Profilo autobiografico”, testo sulla cui anomalia compositiva sarà interessante tornare), attorno ai quali si raccoglie e fa da sfondo una ben più ampia e variegata casistica di “doppi” fantastici, di possibilità di esistere immaginate e sperimentate.
Svevo allo specchio, di fronte a uno specchio di carta che non lo lascia, che genera figure e virtuali maniere di essere, che popola un altro mondo di cui Italo Svevo è già – a differenza del biografico Ettore Schmitz – un abitatore: un’opera che solo tre romanzi compiutamente realizzati e dati alle stampe non esauriscono. Non è Svevo, ci si chiede fornendo subito qualche altra certificazione di supporto, il benestante signor Aghios in cerca di libertà ed emozioni di “Corto viaggio sentimentale”, o il rinunciatario e appartato scrittore di favole Mario Samigli ambiguamente baciato dal successo nei suoi vecchi anni (ed E. Samigli, prima che lo pseudonimo di Italo Svevo nascesse, si era firmato il collaboratore dell’”Indipendente” Ettore Schmitz) delineato in “Una burla riuscita”? Non è Svevo lo Zeno vegliardo dell’incompiuto “quarto romanzo”? E non è lui, oltre i confini narrativi, il protagonista di testi per il teatro come “Un marito” e “La rigenerazione”?
Al pari del senese Federigo Tozzi, suo congruo compagno di strada in quella potente operazione di smantellamento della letteratura di tradizione che sigla in Italia l’inaugurazione – secondo un celebre titolo di Giacomo Debenedetti – del “romanzo del Novecento”, Svevo riempie fondamentalmente la propria opera di immagini di sé: le ricerca, tenta di metterle a fuoco, le verifica nella loro tenuta di creature sincere di una finzione con il ricorso a una pratica per lui irrinunciabile e in sospetto di mistificazione come quella scrittoria, di continuo criticata e discussa, contestata e contrastata ma valutata remunerativa. Diversi, rispetto a Tozzi, i modi espressivi, i trattamenti della “materia d’origine”, la qualità della scrittura e i quozienti stessi di «invenzione» appannaggio delle due realizzazioni letterarie. Ma sta di fatto che, culturalmente preparati ed esigenti, ambedue gli scrittori, nello scrivere romanzi moderni in cui bene o male si confessano, fanno della sincerità una stima assai alta, anche in questo diversi, se ad esempio l’autore di Con gli occhi chiusi problematizza anche in sede saggistica un fascino e un’importanza letteraria di D’Annunzio cui fino all’ultimo non si sottrae, mentre il biologicamente prosastico e antilirico Svevo se ne dimostra fin dagli inizi del tutto insensibile, ricorrendo semmai, e quasi coltivandole, ad altre forme rivelatrici della “menzogna” .
E come, al di là degli investimenti culturali ritenuti validi, essere modernamente sinceri? Rispecchiando la vita o attribuendo alla scrittura, su cui la vita incide, funzioni più complesse, responsabilità più cogenti e decisive? Le posizioni novecentesche si divaricano: perfino tra i sospettati poeti, i sublimi cantori dell’io, da quelle di Ungaretti che dichiara di non conoscere opera d’arte che non derivi dalla vita a tal punto da raccogliere la propria produzione sotto il titolo di “Vita d’un uomo”, a quelle di un Montale che in uno scritto di “Nel nostro tempo” afferma: “L’ipotesi romantica che l’arte nasca dalla vita anziché dall’arte già esistente, trova pochissime conferme nella storia”. Perfino uno scrittore per molti versi distante da Svevo come André Gide, nel 1893, in un testo poi raccolto in “Le retour de l’enfant prodigue”, sostiene: “Nos livres n’auront pas été les récits très véridiques de nous-mêmes, mais plutôt nos plaintifs désirs, le souhait d’autres vies à jamais défendues, de tous les gestes impossibles” (“La tentative amoureuse”).
Marco Marchi
Da “Vino generoso”
Inghiottii la pillola con un sorso d’acqua e ne ebbi un lieve refrigerio. Baciai mia moglie sulla guancia macchinalmente. Era un bacio quale poteva accompagnare le pillole. Non me lo sarei potuto risparmiare se volevo evitare discussioni e spiegazioni. Ma non seppi avviarmi al riposo senz’avere precisato la mia posizione nella lotta che per me non era ancora cessata, e dissi nel momento di assestarmi nel letto: – Credo che le pillole sarebbero state più efficaci se prese con vino…
Spense la luce e ben presto la regolarità del suo respiro mi annunziò ch’essa aveva la coscienza tranquilla, cioè, pensai subito, l’indifferenza più assoluta per tutto quanto mi riguardava. Io avevo atteso ansiosamente quell’istante, e subito mi dissi ch’ero finalmente libero di respirare rumorosamente, come mi pareva esigesse lo stato del mio organismo, o magari di singhiozzare, come nel mio abbattimento avrei voluto. Ma l’affanno, appena fu libero, divenne un affanno più vero ancora. Eppoi non era una libertà, cotesta. Come sfogare l’ira che imperversava in me? Non potevo fare altro che rimuginare quello che avrei detto a mia moglie e a mia figlia il giorno dopo. – Avete tanta cura della mia salute, quando si tratta di seccarmi alla presenza di tutti? – Era tanto vero. Ecco che io ora m’arrovellavo solitario nel mio letto e loro dormivano serenamente. Quale bruciore! Aveva invaso nel mio organismo tutto un vasto tratto che sfociava nella gola. Sul tavolino accanto al letto doveva esserci la bottiglia dell’acqua ed io allungai la mano per raggiungerla. Ma urtai il bicchiere vuoto e bastò il lieve tintinnìo per destare mia moglie. Già quella lì dorme sempre con un occhio aperto.
– Stai male? – domandò a bassa voce. Dubitava di aver sentito bene e non voleva destarmi. Indovinai un tanto, ma le attribuii la bizzarra intenzione di gioire di quel male, che non era altro che la prova ch’ella aveva avuto ragione. Rinunziai all’acqua e mi riadagiai, quatto quatto. Subito essa ritrovò il suo sonno lieve che le permetteva di sorvegliarmi.
Insomma, se non volevo soggiacere nella lotta con mia moglie, io dovevo dormire. Chiusi gli occhi e mi rattrappii su di un fianco. Subito dovetti cambiare posizione. Mi ostinai però e non apersi gli occhi. Ma ogni posizione sacrificava una parte del mio corpo. Pensai: «Col corpo fatto così non si può dormire». Ero tutto movimento, tutto veglia. Non può pensare il sonno chi sta correndo. Della corsa avevo l’affanno e anche, nell’orecchio, il calpestìo dei miei passi: di scarponi pesanti. Pensai che forse, nel letto, mi movevo troppo dolcemente per poter azzeccare di colpo e con tutte e due le membra la posizione giusta. Non bisognava cercarla. Bisognava lasciare che ogni cosa trovasse il posto confacente alla sua forma. Mi ribaltai con piena violenza. Subito mia moglie mormorò: – Stai male? – Se avesse usato altre parole io avrei risposto domandando soccorso. Ma non volli rispondere a quelle parole che offensivamente alludevano alla nostra discussione.
Stare fermi doveva essere tanto facile. Che difficoltà può essere a giacere, giacere veramente nel letto? Rividi tutte le grandi difficoltà in cui ci imbattiamo a questo mondo, e trovai che veramente, in confronto a qualunque di esse, giacere inerte era una cosa di nulla. Ogni carogna sa stare ferma. La mia determinazione inventò una posizione complicata ma incredibilmente tenace. Ficcai i denti nella parte superiore del guanciale, e mi torsi in modo che anche il petto poggiava sul guanciale mentre la gamba destra usciva dal letto e arrivava quasi a toccare il suolo, e la sinistra s’irrigidiva sul letto inchiodandomivi. Sì. Avevo scoperto un sistema nuovo. Non io afferravo il letto, era il letto che afferrava me. E questa convinzione della mia inerzia fece sì che anche l’oppressione aumentò, io ancora non mollai. Quando poi dovetti cedere mi consolai con l’idea che una parte di quella orrenda notte era trascorsa, ed ebbi anche il premio che, liberatomi dal letto, mi sentii sollevato come un lottatore che si sia liberato da una stretta dell’avversario.
Io non so per quanto tempo stessi poi fermo. Ero stanco. Sorpreso m’avvidi di uno strano bagliore nei miei occhi chiusi, d’un turbinìo di fiamme che supposi prodotte dall’incendio che sentivo in me. Non erano vere fiamme ma colori che le simulavano. E s’andarono poi mitigando e componendo in forme tondeggianti, anzi in gocce di un liquido vischioso, che presto si fecero tutte azzurre, miti, ma cerchiate da una striscia luminosa rossa. Cadevano da un punto in alto, si allungavano e, staccatesi, scomparivano in basso. Fui io che dapprima pensai che quelle gocce potevano vedermi. Subito, per vedermi meglio, esse si convertirono in tanti occhiolini. Mentre si allungavano cadendo, si formava nel loro centro un cerchietto che privandosi del velo azzurro scopriva un vero occhio, malizioso e malevolo. Ero addirittura inseguito da una folla che mi voleva male. Mi ribellai nel letto gemendo invocando: – Mio Dio!
– Stai male? – domandò subito mia moglie.
Dev’esser trascorso qualche tempo prima della risposta. Ma poi avvenne che m’accorsi ch’io non giacevo più nel mio letto, ma mi ci tenevo aggrappato, ché s’era convertito in un’erta da cui stavo scivolando. Gridai: – Sto male, molto male.
Mia moglie aveva acceso una candela e mi stava accanto nella sua rosea camicia da notte. La luce mi rassicurò ed anzi ebbi chiaro il sentimento di aver dormito e di essermi destato soltanto allora. Il letto s’era raddrizzato ed io vi giacevo senza sforzo. Guardai mia moglie sorpreso, perché ormai, visto che m’ero accorto di aver dormito, non ero più sicuro di aver invocato il suo aiuto. – Che vuoi? – le domandai.
Essa mi guardò assonnata, stanca. La mia invocazione era bastata a farla balzare dal letto, non a toglierle il desiderio del riposo, di fronte al quale non le importava più neppure di aver ragione. Per fare presto domandò: – Vuoi di quelle gocce che il dottore prescrisse per il sonno?
Esitai per quanto il desiderio di star meglio fosse fortissimo. – Se lo vuoi, – dissi tentando di apparire solo rassegnato. Prendere le gocce non equivale mica alla confessione di star male.
Poi ci fu un istante in cui godetti di una grande pace. Durò finché mia moglie, nella sua camicia rosea, alla luce lieve di quella candela, mi stette accanto a contare le gocce. Il letto che era un vero letto orizzontale, e le palpebre, se le chiudevo, bastavano a sopprimere qualsiasi luce nell’occhio. Ma io le aprivo di tempo in tempo, e quella luce e il roseo di quella camicia mi davano altrettanto refrigerio che l’oscurità totale. Ma essa non volle prolungare di un solo minuto la sua assistenza e fui ripiombato nella notte a lottare da solo per la pace.
Ricordai che da giovine, per affrettare il sonno, mi costringevo a pensare ad una vecchia bruttissima che mi faceva dimenticare tutte le belle visioni che m’ossessionavano. Ecco che ora mi era invece concesso d’invocare senza pericolo la bellezza, che certo m’avrebbe aiutato. Era il vantaggio – l’unico – della vecchiaia. E pensai, chiamandole per nome, varie belle donne, desiderii della mia giovinezza, d’un’epoca nella quale le belle donne avevano abbondato in modo incredibile. Ma non vennero. Neppur allora si concedettero. Ed evocai, evocai, finché dalla notte sorse una sola figura bella: Anna, proprio lei, com’era tanti anni prima, ma la faccia, la bella rosea faccia, atteggiata a dolore e rimprovero. Perché voleva apportarmi non la pace ma il rimorso. Questo era chiaro. E giacché era presente, discussi con lei. Io l’avevo abbandonata, ma essa subito aveva sposato un altro, ciò ch’era nient’altro che giusto. Ma poi aveva messo al mondo una fanciulla ch’era ormai quindicenne e che somigliava a lei nel colore mite, d’oro nella testa e azzurro negli occhi, ma aveva la faccia sconvolta dall’intervento del padre che le era stato scelto: le ondulazioni dolci dei capelli mutate in tanti ricci crespi, le guance grandi, la bocca larga e le labbra eccessivamente tumide. Ma i colori della madre nelle linee del padre finivano coll’essere un bacio spudorato, in pubblico. Che cosa voleva ora da me dopo che mi si era mostrata tanto spesso avvinta al marito?
E fu la prima volta, quella sera, che potei credere di aver vinto. Anna si fece più mite, quasi ricredendosi. E allora la sua compagnia non mi dispiacque più. Poteva restare. E m’addormentai ammirandola bella e buona, persuasa. Presto mi addormentai.
Ma poco dopo… Un sogno atroce: mi trovai in una costruzione complicata, ma che subito intesi come se io ne fossi stato parte. Una grotta vastissima, rozza, priva di quegli addobbi che nelle grotte la natura si diverte a creare, e perciò sicuramente dovuta all’opera dell’uomo; oscura, nella quale io sedevo su un treppiedi di legno accanto ad una cassa di vetro, debolmente illuminata di una luce che io ritenni fosse una sua qualità, l’unica luce che ci fosse nel vasto ambiente, e che arrivava ad illuminare me, una parete composta di pietroni grezzi e di sotto un muro cementato. […]
Io seppi subito che quella grotta era stata costruita da alcuni uomini che l’usavano per una cura inventata da loro, una cura che doveva essere letale per uno dei rinchiusi (molti dovevano esserci laggiù nell’ombra) ma benefica per tutti gli altri. Proprio così! Una specie di religione, che abbisognava di un olocausto. […]
Era facile indovinare che, visto che m’avevano posto vicino alla cassa di vetro nella quale la vittima doveva essere asfissiata, ero prescelto io a morire, a vantaggio di tutti gli altri. Ed io già anticipavo in me i dolori della brutta morte che m’aspettava. Respiravo con difficoltà, e la testa mi doleva e pesava, per cui la sostenevo con le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia.
Improvvisamente tutto quello che già sapevo fu detto da una quantità di gente celata nell’oscurità. Mia moglie parlò per prima: – Affrettati, il dottore ha detto che sei tu che devi entrare in quella cassa. – A me pareva doloroso, ma molto logico. Perciò non protestai, ma finsi di non sentire. E pensai: “L’amore di mia moglie m’è sembrato sempre sciocco”. Molte altre voci urlarono imperiosamente: – Vi risolvete ad obbedire? – Fra queste voci distinsi chiaramente quella del dottor Paoli. Io non potevo protestare, ma pensai: “Lui lo fa per essere pagato”.
Alzai la testa per esaminare ancora una volta la cassa di vetro che m’attendeva. Allora scopersi, seduta sul coperchio della stessa, la sposa. Anche a quel posto ella conservava la sua perenne aria di tranquilla sicurezza. Sinceramente io disprezzavo quella sciocca, ma fui subito avvertito ch’essa era molto importante per me. Questo l’avrei scoperto anche nella vita reale, vedendola seduta su quell’ordigno che doveva servire ad uccidermi. E allora io la guardai, scodinzolando. Mi sentii come uno di quei minuscoli cagnotti che si conquistano la vita agitando la propria coda. Un’abbiezione!
Ma la sposa parlò. Senz’alcuna violenza, come la cosa più naturale di questo mondo essa disse: – Zio, la cassa è per voi.
Io dovevo battermi da solo per la mia vita. Questo anche indovinai. Ebbi il sentimento di saper esercitare uno sforzo enorme senza che nessuno se ne potesse avvedere. Proprio come prima avevo sentito in me un organo che mi permetteva di conquistare il favore del mio giudice senza parlare, così scopersi in me un altro organo, che non so che cosa fosse, per battermi senza muovermi e così assaltare i miei avversari non messi in guardia. E lo sforzo raggiunse subito il suo effetto. Ecco che Giovanni, il grosso Giovanni, sedeva nella cassa di vetro luminosa, su una sedia di legno simile alla mia e nella stessa mia posizione. Era piegato in avanti, essendo la cassa troppo bassa, e teneva gli occhiali in mano, affinché non gli cadessero dal naso. Ma così egli aveva un po’ l’aspetto di trattare un affare, e di essersi liberato dagli occhiali, per pensare meglio senza vedere nulla. Ed infatti, benché sudato e già molto affannato, invece che pensare alla morte vicina era pieno di malizia, come si vedeva dai suoi occhi, nei quali scorsi il proposito dello stesso sforzo che poco prima avevo esercitato io. Perciò io non sapevo aver compassione di lui, perché di lui temevo.
Anche a Giovanni lo sforzo riuscì. Poco dopo al suo posto nella cassa c’era l’Alberi, il lungo, magro e sano Alberi, nella stessa posizione che aveva avuto Giovanni ma peggiorata dalle dimensioni del suo corpo. Era addirittura piegato in due e avrebbe destato veramente la mia compassione se anche in lui oltre che affanno non ci fosse stata una grande malizia. Mi guardava di sotto in su, con un sorriso malvagio, sapendo che non dipendeva che da lui di non morire in quella cassa.
Dall’alto della cassa di nuovo la sposa parlò: – Ora, certamente toccherà a voi, zio. – Sillabava le parole con grande pedanteria. […]
Ero condannato da tutti. Lontano da me, in qualche parte della grotta, nell’attesa, mia moglie e il dottore camminavano su e giù e intuii che mia moglie aveva un aspetto risentito. Agitava vivacemente le mani declamando i miei torti. Il vino, il cibo e i miei modi bruschi con lei e con la mia figliuola.
Io mi sentivo attratto verso la cassa dallo sguardo di Alberi, rivolto a me trionfalmente. M’avvicinavo ad essa lentamente con la sedia, pochi millimetri alla volta, ma sapevo che quando fossi giunto ad un metro da essa (così era la legge) con un solo salto mi sarei trovato preso, e boccheggiante.
Ma c’era ancora una speranza di salvezza. Giovanni, perfettamente rimessosi dalla fatica della sua dura lotta, era apparso accanto alla cassa, che egli più non poteva temere, essendoci già stato. Si teneva eretto in piena luce, guardando ora l’Alberi che boccheggiava e minacciava, ed ora me, che alla cassa lentamente m’avvicinavo.
Urlai: – Giovanni. Aiutami a tenerlo dentro… Ti darò del denaro. – Tutta la grotta rimbombò del mio urlo, e parve una risata di scherno. Io intesi. Era vano supplicare. Nella cassa non doveva morire né il primo che v’era stato ficcato, né il secondo, ma il terzo. Anche questa era una legge della grotta, che come tutte le altre, mi rovinava. […]
E allora io urlai ancora: – Se non si può altrimenti, prendete mia figlia. Dorme qui accanto. Sarà facile. – Anche questi gridi furono rimandati da un’eco enorme. Ne ero frastornato, ma urlai ancora per chiamare mia figlia: – Emma, Emma, Emma!
Ed infatti dal fondo della grotta mi pervenne la risposta di Emma, il suono della sua voce tanto infantile ancora: – Eccomi, babbo, eccomi.
Mi parve non avesse risposto subito. Ci fu allora un violento sconvolgimento che credetti dovuto al mio salto nella cassa. Pensai ancora: “Sempre lenta quella figliuola quando si tratta di obbedire”. Questa volta la sua lentezza mi rovinava ed ero pieno di rancore.
Mi destai. Questo era lo sconvolgimento. Il salto da un mondo nell’altro. Ero con la testa e il busto fuori del letto e sarei caduto se mia moglie non fosse accorsa a trattenermi. Mi domandò: – Hai sognato? – E poi, commossa: – Invocavi tua figlia. Vedi come l’ami?
Italo Svevo
(da M. Marchi, Vita scritta di Italo Svevo, Le Lettere)
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