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Firenze, 8 febbraio 2024 – Ricordando che l’8 febbraio 1888 nasceva ad Alessandria d’Egitto Giuseppe Ungaretti.

Al di là dell’indubbia grandezza di un’opera, Giuseppe Ungaretti è stato e resta un poeta centrale del Novecento italiano nella misura in cui ha saputo rappresentare possibilità della poesia moderna: possibilità effettive e tra loro diverse – contrastanti e perfino internamente al sistema Ungaretti antitetiche, se Ungaretti è stato il poeta di Allegria di Naufragi e quello del Sentimento del Tempo –, svolte in un contesto specifico (e di volta in volta mutevolmente specifico), con le sue particolarità, i suoi sviluppi, i suoi vantaggi e i suoi ritardi rispetto ad altre tradizioni.

Ungaretti ha vissuto da protagonista un secolo, di quel secolo nutrendosi e a quel secolo facendo scuola. Vita d’un uomo, appunto: siamo con un titolo più di altri ritenuto valevole, riassuntivo di esiti e prima ancora di una disposizione, al nodo cruciale in cui le ragioni della biografia e quelle della produzione letteraria, la vita e la poesia, si affrontano, cercano i loro punti di contatto e insieme demarcano autonomie, siglano competenze.

In realtà paesaggi e scenari biografici presto in Ungaretti si confondono, si annullano e si trasfigurano. La trincea sarà tra poco, per lui proveniente da Alessandria d’Egitto desideroso di appartenenze e patrie ritrovate, un nuovo deserto. Nasce la poesia di Ungaretti, ed anche la partecipazione del poeta alla Grande Guerra reagisce di comporto, nel senso di un’incidenza molto personalizzata di eventi, da «vita d’un uomo».

Il poeta, l’«uomo di pena», le parole, l’armonia. Il «processo di raccoglimento che poté essere aiutato dalla vicenda umana della guerra» presupposto con evidente cautela da un critico acuto come Gianfranco Contini risulta già impostato, se Parigi – laddove una strumentazione storicamente e ibridamente si forma collegando a ritroso Apollinaire a Mallarmé e Mallarmé a Guérin – si è ridotta a «grigi inenarrabili» e anzi, ancora citando, a «sfumature all’infinito smorzate del colore».

Analogamene la nebbia di Milano, dove ad esempio Ungaretti frequenta la casa di un pittore d’avanguardia come Carrà, si è risolta in un «sentimento d’infinito», ed ogni ambiente esterno ha sedato in partenza rivolte riconducibili ad altri mezzi e ad altre impostazioni, profilando invece, preminenti, i confini dell’io per una cattura in parole della libertà, dell’invocata armonia, dell’innocenza.

La guerra rivela ad Ungaretti – «improvvisamente», come il poeta sottolinea – il linguaggio. E tuttavia il carattere traumatico, drammatico e liberatorio di una condizione registrata ha maturato non da ora risorse e possibilità, ha avuto e avrà bisogno di cultura per ritrovarsi così stabilito ed espressivamente soddisfatto. Perfino il topos romantico-simbolista dell’étranger, aggiornabile e personalizzabile in quello dello «spatriato», si è definito tramite Guérin e Baudelaire, tramite Leopardi: i poeti.

Purificata, ricondotta al suo valore fondante e incorruttibile di monade interna, la parola essenziale cui Ungaretti perviene torna così ad essere il primo atomo di un discorso di rottura senza confronti, ma anche di una conquista ulteriore, imprevista e più ampia: una ricomposizione già agisce all’interno della raccolta, specificandosi in metri sotterranei, sia pure contrastati da una pronuncia rilevata ed isolante di vocaboli, sillabe e suoni.

Si annuncia la ricomposizione del «lungo dissidio» fra tradizione e invenzione, ordine e avventura, che sarà valida fino agli anni estremi. La parola ungarettiana si immerge nel verso, lo ricompone e lo ritrova, tenta un nuovo canto. E sarà l’endecasillabo che suggella Preghiera a gettare un ponte – complice il variantismo, in Ungaretti antistoricamente costitutivo e sistematico –  tra L’Allegria e Sentimento del Tempo: «Quando il mio peso mi sarà leggero / il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido».

Marco Marchi

Per sempre

Senza niuna impazienza sognerò,
mi piegherò al lavoro
che non può mai finire,
e a poco a poco in cima
alle braccia rinate
si riapriranno mani soccorrevoli,
nelle cavità loro
riapparsi gli occhi, ridaranno luce,
e, d’improvviso intatta
sarai risorta, mi farà da guida
di nuovo la tua voce,
per sempre ti rivedo.

Giuseppe Ungaretti 

(da Il taccuino del vecchio, 1960)

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