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Firenze, 18 giugno 2023 – Dina Ferri era abitata dalla poesia. Il suo Quaderno del nulla (recentemente ripubbicat0 a cura di Nicoletta Mainardi, introduzione di Marco Marchi, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 2020) sta qui a dimostrarlo. È certo che una morte troppo prematura non ha consentito alla voce di Dina di dispiegarsi ulteriormente, di sviluppare compiutamente un graduale e articolato percorso di crescita e affinamento del suo dono, ma già quello che il suo libro e i testi ad esso affiancabili propongono al lettore è sufficiente a situare in maniera significativa e indelebile la sua figura e il suo operato nel panorama della poesia italiana di primo Novecento.

Spetta all’“incompiuto canto” di Dina Ferri (così l’ha definito felicemente uno dei suoi lettori più fedeli e attenti, Luigi Oliveto) questo posizionamento storiografico culturalmente fondato, accertabile sulla base di quelle stesse conoscenze letterarie di tipo scolastico (la poesia di Pascoli in primis, secondo una predilezione che trova riscontro anche nelle Poesie d’Italiano copiate in un quaderno per Dina da Anna Angiolini dell’Istituto Magistrale di Siena, con Anniversario e Romagna) di cui la giovane poteva disporre e che la sua produzione rende già di primo acchito apprezzabili.

Siamo di fronte a un pascolismo a sfondo naturale dipendente in primo luogo da Myricae che alla Ferri era possibile originalmente rivivere a contatto con la sua natura, secondo la propria quotidiana esperienza di contadinella senese vissuta tra i campi, i boschi e le pareti della sua casa (un “povero casolare da presepe” secondo Aldo Lusini). Una ragazza di campagna nata il 29 settembre 1908 ad Anqua, nel podere Prativigne nel comune di Radicondoli, in provincia di Siena; una ragazza destinata a una prematura scomparsa, dedita al pascolo e alle fatiche rurali prima ancora che agli estetici lavori di ricamo che tanto le piacevano e a quella scrittura rivelatasi presto, per lei, come lo spazio espressivo d’elezione: uno spazio consentaneo fattole conoscere dalla scuola, uno spazio impegnativo quanto importante, attraente e in definitiva ineludibile.

Dina Ferri, lo ripetiamo essendone del tutto convinti, era letteralmente abitata dalla poesia e a essa si conformava, abbeverandosi quanto più le era consentito anche alla scrittura in versi degli altri, facendo di essa un suo naturale nutrimento, e vivendo attraverso quei versi scritti da altri una sorta d’ideale compartecipazione per via dialogica ad una comunità di esseri affini: esseri analogamente disposti a sentire e praticare, condividendo un simile destino di vocati al canto, le strane obbedienze in cerca di libertà che fondano l’espressione artistica. Una più generale spinta alla fiducia nelle ragioni della cultura e dell’emancipazione umana conseguibile per quella via, proveniva del resto, ancor prima che dalle varie aule scolastiche che la ragazza avrebbe con profitto frequentato, dal suo stesso ambiente familiare nel quale la presenza di un padre socialista doveva assumere, oltre i canoni dell’epoca, un indubbio, privilegiato rilievo.

Nel processo investigativo che abbinerà nel corso della sua breve esistenza la morte al mistero l’insegnamento della “musa gentile del Pascoli” è espressamente riconosciuto dalla Ferri stessa in una prosa che può leggersi adesso negli Altri testi del libro (Fermiamoci in una pura notte estiva…). Ed è proprio la morte, tema impellente e ricorrente di un’intera produzione letteraria (basti pensare tra i componimenti lirici a La morticina e Due novembre, e tra le prose a Quando giunsi al piccolo borgo solitario e Marco faceva il pastore o, ancora nei testi non compresi nel Quaderno del nulla e adesso resi noti, alla lirica Pace e alle prose Topì e Il vecchio Nicola), la protagonista indiscussa della bellissima lettera che Dina scrive ai genitori dall’ospedale di Siena il 10 marzo 1930: “Qui, dove la morte alita il suo gelido respiro, non sento più, come costà, la ribellione della mia giovinezza e non penso più ai peschi in fiore di primavera. Prima non mi saziavo di sole e di canzoni; ora mi basta quel raggio che mi tocca la coperta e mi contento del cinguettìo di pochi passeri al mattino”.

Ma a questo tragico, realistico e drasticamente circoscritto bilancio esistenziale tra presente e passato cui il pensiero della morte imminente obbliga la giovane, si contrappongono non solo le considerazioni a sfondo religioso-fideistico, tra filotea e alta letteratura mistica cateriniana, che la Ferri elabora in quegli ultimi mesi della propria vita, ma anche le riconfermate fiducie in altri non rinnegati approdi: quelli concessi dalla poesia. Ad essi resta affidato il suo ricordo e, parimenti giunto fino a noi, il suo indelebile, corroborante e ancora attivo contributo alla storia del mondo.

Marco Marchi

Vorrei

Vorrei fuggire nella notte nera,
vorrei fuggire per ignota via,
per ascoltare il vento e la bufera,
per ricantare la canzone mia.

Vorrei mirare nella cupa volta
fise le stelle nella notte scura;
vorrei tremare ancor come una volta,
tremar vorrei, di freddo e di paura.

Vorrei passar l’incognito sentiero,
fuggir per valli, riposarmi a sera,
mentre ritorni, o giovinetto fiero,
chiamando i greggi, e piange la bufera.

Mai più!

Chiesi un giorno alle nubi lontane
quando l’ombra finisce quaggiù;
mi rispose vicino una voce,
una voce che disse: – Mai più!

A le stelle del cielo turchino,
a la notte vestita di nero,
io richiedo con timida voce,
come allora, lo stesso mistero.

Io richiedo ne l’ombra la via
e risogno la luce che fu.
Ma risento la solita voce;
quella voce che dice: – Mai più!

Siena, 2 marzo 1929

C’era tanta luce e tanto sole nel cielo, e davanti a me l’orizzonte si apriva sempre più vasto. Camminavo, camminavo fin dal mattino. La via era sassosa, erta, tortuosa. Si scendeva traverso i boschi nei torrenti disseccati, si risaliva lentamente tra le siepi. Si udiva il volo di qualche uccello spaventato che fuggiva. Talvolta un trillo feriva l’aria, poi taceva quasi sùbito.
Era bello quel giorno, e nella serenità dell’aria fredda di marzo, camminavo con un desiderio nuovo. Forse ero stanca, ma non lo sentivo. E l’orizzonte ingrandiva sempre, e lontano si vedevano grandi monti azzurrognoli. Si udiva il campano di un gregge, un belato, un richiamo, poi silenzio. Incontro un viandante, si scambiava un saluto, guardavo un istante senza voglia di camminare. Dall’alto di un colle si scorgevano in un campo, dietro un torrente pieno di ciottoli, due buoi aggiogati all’aratro, un bifolco, una striscia scura di terra. Poi di nuovo la solitudine e il silenzio.
I miei compagni di viaggio tacevano. Pareva che ognuno avesse un pensiero, un ricordo. Forse io sola non pensavo a ciò che restava dietro di me. Guardavo gli orizzonti, i monti, il cielo. Mi piaceva camminare così. Vedevo cose nuove, ma non chiedevo nulla. Mi bastava vedere. Sentivo, sommesso, un coro immenso di voci cantare al cielo e al sole, e volevo rapire una sola di quelle voci per chiuderla nell’anima.
Il giorno passò; il sole si spense nei vapori del tramonto. Allora si vide, ancora lontano, un rustico villaggio dimenticato su una via bianca, lunga, polverosa. Guardai lontano e lo sguardo si perdè nella via; ma io non ebbi più voglia di proseguire; mi volsi indietro e piansi. Fu così che in un tramonto di marzo, traverso vie mai percorse, vidi profilarsi Ciciano in un lontano incendio. Era un piccolo villaggio di cui il viandante non serba forse che un vago ricordo, che si cancella prima ch’egli torni nella patria abbandonata; ma nella mia mente di bimba ha lasciato una di quelle impressioni che il tempo non riesce a cancellare. Le sue case erano rustiche, piccole, modeste, coi muri di pietra rossa, coi tetti rossi, battuti dalle piogge, e nel villaggio c’era una piccola piazza traversata dalla strada bianca. Le altre vie erano strette, deserte, chiuse tra le case grigie, addossate le une alle altre. Ogni sera fumavano i comignoli scuri, come un invito di ritorno e una promessa di riposo. Ogni sera belavano le capre nelle strette viuzze ricondotte dai fanciulli e tornavano dai campi gli abitanti con fasci d’erba sulle spalle, o con canestri di giunco colmi di frutta, infilati al braccio. Al di sopra dei comignoli, tra le modeste abitazioni, si eleva un campanile. Là c’era una chiesa piccola, bianca, come ogni chiesa di campagna. Le sue campane suonavano al mattino, suonavano la sera. Talvolta, quando udivo quel canto, come nella sera lontana dell’arrivo, ripensavo alla casa abbandonata e mi commovevo. Ma Ciciano mi piaceva. Mi piacevano le case rustiche, le viuzze. La piazza, la strada grande non dicevano nulla per me.
Giravo come una piccola vagabonda tra i vicoli stretti e deserti senza nulla chiedere ai ragazzi sporchi che giocavano su le pietre. Per molto tempo andai così, con indifferenza, da un vicolo all’altro. Nulla chiedevo agli abitanti, nulla chiedevano a me. Solo, qualche volta, i ragazzi alzavano il capo per guardarmi e mi guardavano le madri lavorando su le porte spalancate.
Un giorno capitai in un vicolo remoto, più stretto degli altri, sormontato da un arco.
Presso l’arco c’era una piccola loggia e nella loggia piena di sole si apriva la porta di una singolare dimora, tanto piccola, tanto povera, tanto deserta d’intorno, che si sarebbe creduta abbandonata, se la porta non fosse ogni giorno rimasta aperta.
Dinanzi alla porta filava una vecchina. Era piccola, curva, con le mani scarne, il volto pallido, gli occhi sereni, stranamente sereni, i capelli bianchi. Vestiva un abito nero, logoro, antico; sempre lo stesso. C’era tanto sole nella piccola loggia davanti alla casa della vecchina, ma i ragazzi non vi giocavano mai, ed essa rimaneva sola, sempre sola. Non pareva dolersi della sua solitudine; pareva non avvedersene, e filava sempre. Presso la filatrice, sul davanzale di una finestra piccola e bassa, in un vecchio vaso, c’era una pianta verde di geranio, che non fioriva mai. La vecchia amava quella pianta: la innaffiava puntualmente, senza dimenticarsene, la sera e la mattina, e le strappava le foglie secche, come il tempo strappava a lei gli anni, così che non si ricordava più quante volte le rondini avevano fabbricato il nido sotto la gronda, da che essa viveva nella casina. Mi piaceva la strana vecchietta, e passavo e ripassavo per quella via. E la vecchina filava sempre, la mattina, la sera, senza annoiarsi, senza stancarsi mai. Poi mi avvicinai un giorno e mi affezionai alla povera filatrice. Allora tutti i miei giri di piccola vagabonda ebbero una mèta: la loggia della vecchina.
E lassù, nella viuzza deserta, essa mi narrava le cose e i fatti dei suoi tempi; le novelle meravigliose e le leggende del paese. Ma un giorno mi dissero che la vecchina era morta. Pensai che la sua dimora era vuota, che la loggia era deserta: non ricordai che il geranio aveva sete e impallidiva, e non vi tornai più.
Da allora Ciciano mi rimase per lungo indifferente e non mi accorsi che le sue case aumentavano, che le sue vie ingrandivano, e che perdeva quell’aspetto di rustico villaggio. È stato oggi, che ritornando dopo lunga assenza, me ne sono accorta. Io non riconosco più le sue case, come non riconosco più i suoi abitanti. I ragazzi hanno dimenticato le capre alla pastura. Questo non è più Ciciano come lo vidi e come l’amo io, rustico e semplice. Sono andata cercando qualche cosa che mi parlasse del tempo trascorso e sono ripassata dinanzi alla casa della vecchina. La casa è ingrandita e su la porta era una donna che non conobbi. Essa mi guardò, ma non sorrise come la vecchina. Solo una cosa Ciciano conserva d’immutato: il pianto delle sue campane.

Ospedale di Siena, 10 giugno 1930

Muore l’Estate come un gran giorno pieno di sole. Ingialliscono le foglie del granturco e il sole non arde più. Ritorna l’Autunno; si sente nell’aria l’alito del suo respiro. Viene l’Autunno e verrà il giorno della vendemmia. Usciranno lungo i filari le donne e i fanciulli, i vecchi e gli uomini forti. Le giovinette si cingeranno di tralci e il vino stillerà dal frutto maturo e verseranno le coppe ricolme e ovunque sarà festa.
Intanto, nell’attesa, si preparano i tini che spumeranno del dolce liquore.
Ma io amo gli ardori della canicola che imbianca le stoppie e ho paura dell’Autunno, perché dietro di esso c’è l’asprezza del rovaio. No, io non desidero l’Autunno, perché non so cantare lungo i filari, e non voglio udire il canto della vendemmia, perché la malinconia di quel canto assopirà le campagne. E poi io non potrò raccogliere, come il forte agricoltore, il frutto del dolce liquore, poiché nulla avrò seminato o saranno morte le tenere viti. E l’Autunno sarà triste per me.
Ma io non vedrò ingiallire le foglie della vite come quelle del granturco. Quando l’ultimo raggio della canicola sarà impallidito, io dormirò sul ciglio del fossato.
C’è un segreto giù nei campi e me lo disse una mattina una fanciulla che incontrai.
Esiste un fiore strano che ha nel calice un nèttare divino. Non so per quale ninfa fu creato questo fiore, ma l’uomo che una volta si disseta con quel nèttare, s’addormenta e non sa più. Anch’io accosterò le labbra al calice del fiore strano, gusterò del nèttare divino, e m’addormenterò sul fossato. E sopra di me passerà l’Autunno e piangerà la bufera. Ma io non udrò, e sognerò la canicola che imbianca le stoppie.

Dina Ferri 

(da Quaderno del nulla e altri testi)

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