Siamo ancora lontani di una decina o più d’anni dal “Congedo del Viaggiatore cerimonioso” in cui Caproni, in un’immagine che è la più emblematica della sua poesia, veste i panni di chi viaggiando, con dolore ma anche con lieve sarcasmo, per appressarsi sempre più al suo termine, percorre la sua vita in vari modi e con vari mezzi, attraverso scali e soste, transitando per paesaggi, che esprimono impressioni e sentimenti. Ma già in “Alba”, a parte la diversità dello stile poetico quasi prosastico, a monoblocco, senza soste (o scali), con l’uso di quel linguaggio che
mescola forme colte e popolari, sono già presenti alcuni elementi che saranno peculiari di tutta la tematica di Caproni: il mezzo di trasporto, il congedo che non è lontano dall’essere definitivo, il senso della morte suggerito dalle espressioni del freddo esterno di un’alba livida come un’ecchimosi e il sangue congelato come fosse marmo, quel marmo che fa pensare alla tomba. Invece, nel bar dove il protagonista attende l’arrivo della donna – che chiama più volte “Amore” e “Amore mio”, quasi fosse una formula esorcistica – c’è, in contrasto con
l’evidente idea di morte, un gradevole odore e il tepore della vita che ferve. Il ritmo è incalzante. L’emozione è forte e va crescendo, manifestandosi in brividi e “stridore di denti”, forse anche in pianto: dai suoi occhi irritati dalla brina può essere scesa una lacrima che gli incrosta le palpebre di gelo; poi l’emozione si fa parossismo, quando il poeta si rende conto, nell’udire lo sferragliare del tram e l’aprirsi e il rinchiudersi della portiera, che nel mezzo non c’è alcuna presenza, non c’è la “sua” presenza; e questa mi sembra la metafora perfetta dell’inizio e della fine del viaggio chiamato vita, con l’acre consapevolezza che quanto dovrebbe trovarsi nel mezzo tra i due termini sia solo qualcosa di illusorio. Ma, nonostante tutto, il sole sorge ancora, “sgorgando” come sangue pompato da un cuore palpitante di chi, dopo un’ultima invocazione, ha ormai la certezza che la fine dell’attesa diventerà per lui l’inizio dell’attesa della mort
Firenze, 31 gennaio 2024 – Vincono ex aequo, per il mese di gennaio 2024, con un’ampia messe di commenti, Giorgio Caproni e Patrizia Valduga, rispettivamente con L’amore d’inverno. Giorgio Caproni e Il Requiem di Patrizia Valduga. Meritatissimo secondo gradino del podio a Carlo Betocchi (Anniversario Carlo Betocchi). Al terzo posto ancora poesia italiana, e ancora con una partecipazione al femminile, con il bronzo assegnato alla brava Cristina Campo grazie al post La clessidra capovolta. Cristina Campo. Ne deriva un quartetto ben bilanciato di validissimi autori italiani, con quattro testi molto diversi ma tutti di indiscusso fascino che la vostra sensibilità e la vostra intelligenza di lettori affezionati non hanno esitato ancora una volta a rilevare.
Tra i commenti su Giorgio Caproni che oggi omaggiamo segnaliamo quelli di Giacomo Trinci, Antonietta Puri e Arianna Capirossi. Rispettivamente: “Questo tratto dal Passaggio di Enea, 1945, evidenzia quella “disperata tensione metrica”, come scrive l’autore stesso nella nota, al cuore della partitura di tutta l’opera sua. Al centro della sua ispirazione stilistica, come già notava Raboni, c’è il continuo alternarsi di “durezza” e “fluidità”, icastica verticalità, e orizzontale. Questo oltre-sonetto di Caproni, tratto dal ‘Passaggio di Enea’, 1945, evidenzia quella “disperata tensione metrica”, come scrive l’autore stesso nella nota, al cuore della partitura di tutta l’opera sua. Al centro della sua ispirazione stilistica, come già notava Raboni, c’è il continuo alternarsi di “durezza” e “fluidità”, icastica verticalità, e orizzontale legamento sintattico. Ecco, questa è la musica che il poeta stesso ritrovava nei sublimi ultimi quartetti di Beethoven: nell’opera 131, ascoltata nel giorno dei funerali di Elsa Morante. Pensiero-musica, o musica-pensiero che qui lega Amore e Morte: il legame musaico dell’Amore, e l’irta rottura della Morte, la frattura cupa, la verticale improvvisa. Le due grandi ali del pensiero poetante di Caproni, in questa sua fase”compatta”, strofica, sono tenute insieme: presto, invece, prenderanno a staccarsi e l’una, quella dura, irta, epigrammatica costituirà il suo gesto finale, secco, puro. Stacco di pura musica mentale”; “Siamo ancora lontani di una decina o più d’anni dal “Congedo del Viaggiatore cerimonioso” in cui Caproni, in un’immagine che è la più emblematica della sua poesia, veste i panni di chi viaggiando, con dolore ma anche con lieve sarcasmo, per appressarsi sempre più al suo termine, attraversa la vita in vari modi e con vari mezzi, attraverso scali e soste, transitando per paesaggi, che esprimono impressioni e sentimenti. Ma già in “Alba”, a parte la diversità dello stile poetico quasi prosastico, a monoblocco, senza soste (o scali), con l’uso di quel linguaggio che mescola forme colte e popolari, sono già presenti alcuni elementi che saranno peculiari di tutta la tematica di Caproni: il mezzo di trasporto, il congedo che non è lontano dall’essere definitivo, il senso della morte suggerito dalle espressioni del freddo esterno di un’alba livida come un’ecchimosi e il sangue congelato come fosse marmo, quel marmo che fa pensare alla tomba. Invece, nel bar dove il protagonista attende l’arrivo della donna – che chiama più volte “Amore” e “Amore mio”, quasi fosse una formula esorcistica – c’è, in contrasto con l’evidente idea di morte, un gradevole odore e il tepore della vita che ferve. Il ritmo è incalzante. L’emozione è forte e va crescendo, manifestandosi in brividi e “stridore di denti”, forse anche in pianto: dai suoi occhi irritati dalla brina può essere scesa una lacrima che gli incrosta le palpebre di gelo; poi l’emozione si fa parossismo, quando il poeta si rende conto, nell’udire lo sferragliare del tram e l’aprirsi e il rinchiudersi della portiera, che nel mezzo non c’è alcuna presenza, non c’è la “sua” presenza; e questa mi sembra la metafora perfetta dell’inizio e della fine del viaggio chiamato vita, con l’acre consapevolezza che quanto dovrebbe trovarsi nel mezzo tra i due termini sia solo qualcosa di illusorio. Ma, nonostante tutto, il sole sorge ancora, “sgorgando” come sangue pompato da un cuore palpitante di chi, dopo un’ultima invocazione, ha ormai la certezza che la fine dell’attesa diventerà per lui l’inizio dell’attesa della morte”; “‘Alba’ è un suggestivo sonetto di Caproni, che rivisita lo schema metrico tradizionale della letteratura italiana con l’introduzione di variate corrispondenze rimiche o di assonanze, e con il costante ricorso all’enjambement. Il componimento descrive gli interminabili momenti di attesa dell’amata in un bar dimesso. Precisissima è la definizione delle percezioni: il freddo rigido dell’inverno accentuato dal marmo dei ripiani del bar su cui il poeta si appoggia; il rumore del tram che sosta alla fermata – a quell’ora deserta – aprendo e chiudendo meccanicamente le porte; il vibrare del bicchiere vitreo tra i denti, forse per risonanza con il passaggio del tram, o forse proprio per il gelo patito. A un certo punto, spunta il sole: ma non è segno di speranza nell’orizzonte del poeta, che già dispera di rivedere l’amata; è piuttosto simbolo del tempo che passa, giorno dopo giorno, e che ci avvicina alla morte. “Morte” è la parola conclusiva del sonetto, e si oppone alla parola di apertura, “Amore”: Caproni ha riproposto, calandolo in una situazione del quotidiano cittadino, solo apparentemente banale, il grande topos letterario di Eros e Thanatos”. “”Alba” è un suggestivo sonetto di Caproni, che rivisita lo schema metrico tradizionale della letteratura italiana con l’introduzione di variate corrispondenze rimiche o di assonanze, e con il costante ricorso all’enjambement. Il componimento descrive gli interminabili momenti di attesa dell’amata in un bar dimesso. Precisissima è la definizione delle percezioni: il freddo rigido dell’inverno accentuato dal marmo dei ripiani del bar su cui il poeta si appoggia; il rumore del tram che sosta alla fermata – a quell’ora deserta – aprendo e chiudendo meccanicamente le porte; il vibrare del bicchiere vitreo tra i denti, forse per risonanza con il passaggio del tram, o forse proprio per il gelo patito. A un certo punto, spunta il sole: ma non è segno di speranza nell’orizzonte del poeta, che già dispera di rivedere l’amata; è piuttosto simbolo del tempo che passa, giorno dopo giorno, e che ci avvicina alla morte. ‘Morte’ è la parola conclusiva del sonetto, e si oppone alla parola di apertura, ‘Amore’: Caproni ha riproposto, calandolo in una situazione del quotidiano cittadino, solo apparentemente banale, il grande topos letterario di Eros e Thanatos”.
Buona rilettura del bellissimo testo di Caproni e buona lettura di tutti i vostri commenti.
Marco Marchi
I VOSTRI COMMENTI
Marco Capecchi
Gran bella poesia dove l’attesa dell’amata da senso a sentimenti profondi sottolineando il significato dell’assenza e il miracolo
dell’amore.
Tristan 51
L’attesa della morte e “Ad portam Inferi”, sempre all’aba, al freddo… “Chi avrebbe mai pensato, allora, / di doverla incontrare / un’alba (così sola / e debole, e senza / l’appoggio di una parola) / seduta in quella stazione, / la mano sul tavolino / freddo, ad aspettare / l’ultima coincidenza / per l’ultima stazione?”. Caproni: unico.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
Tra allitterazioni e assonanze – quasi una canzone – il sonetto-nonsonetto di Caproni s’inarca, un verso sull’altro, in un’atmosfera sospesa, in un bar di stazione che rispecchia la desolata condizione dell’uomo, a cui solo l’attesa e l’amore offrono una possibilità di riscatto.
Maria Antonietta Rauti
L’attesa in un posto comune, usuale, diventa unica per Chi ne è protagonista l’Amore… Quello che ti percorre la schiena di un brivido che solo Lui, l’Amore, oltre al gelido inverno può farti provare…
Amore capace di far sorgere il Sole… Qui straordinario uso della sequenza di parole “in vece tua”… Amore che nasce, accompagna e congeda con l’ultimo saluto l’uomo Caproni che ha offerto anche a questi versi la sua Eternità.
Antonella Bottari
Nella poesia di oggi, mentre il poeta è immerso nei profumi mattutini di un bar dai vetri appannati, l’alba livida incombe; Il bar, il tram suggeriscono che ci troviamo in una dimensione urbana, in luoghi di sosta, di passaggio, luoghi che sembrano far eco alla condizione esistenziale del poeta: chiuso nella sua solitudine, con un bicchiere di cui si sente lo stridente tremitìo tra i denti. Il bicchiere diviene allegoria di uno stato emozionale, un parlare in altro modo, dunque. Il bicchiere ora si fa oggetto parlante, il suo essere cosa non gli impedisce di comunicare, anzi: la comunicazione diviene tanto più efficace quanto più la sua presenza si fa suono (tremitìo) che concorre a creare un’ atmosfera.
Il vissuto della poesia coincide con il vissuto autobiografico di Caproni: un uomo solo che attende la propria donna in una stazione desolata ai primi chiarori dell’alba, ma allo stesso tempo un poeta, capace di creare spazi atmosferici attraverso l’ausilio di un repertorio di immagini connotato emotivamente.
La sua esperienza individuale diventa certamente universale, ma egli non si erge a moralista, né a modello di comportamento, né a filosofo.
Caproni nei suoi versi tratta un tema universale, con delicatezza e attenzione mostrandosi curioso dell’esistenza, benché s’accorga che il senso del vivere sfugga inevitabilmente: “Di questo, sono certo: io/son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento./ Scendo. Buon proseguimento” (Congedo del viaggiatore cerimonioso).
framo
Una riflessione. Mentre nell’Alba di ‘Come un’allegoria’ il sole assente è salutato da Caproni come sale del mondo, qui fa la sua comparsa al posto dell’oggetto d’amore e sembra porsi a presagio di uno sconsolato pensiero di morte. Nel poeta, come nell’uomo comune, ogni esperienza, anche la più luminosa, non può che filtrare attraverso la nebbia lucida del delirio da ambivalenza.
Sono i temi dell’ aldilà, della morte, dell’attesa, dell’amore, interrogativi nudi, senza retorica o sentimentalismi, eppure emotivamente pregnanti, come si evince dall’ultimo verso, esplicito, del grande Caproni.
Una scrittura intensa, senza pause,efficace, condensata in una forma chiusa, un sonetto, in cui la rima tradizionale è sostituita dalle assonanze e dai rimandi fonici interni.
Paolo Parrini
L’alba in Caproni è un elemento compositivo essenziale, le sua albe livide ritornano spesso a conclusione dei tre poemetti maggiori ad esempio, o nei testi dedicati alla fidanzatina morta in una gelida alba del marzo 1936. Alba è un tipico sonetto alla Caproni, un sonetto monoblocco in cui sono stati aboliti gli spazi tra quartine e terzine, ed è una tipica poesia narrativa, perché come ebbe a dire Caproni stesso “…l’importante è evitare la lirica. Quando mi chiamano poeta a me dà fastidio.Io sono uno scrittore che scrive in versi.La poesia deve essere anche narrativa, avere un ritmo narrativo,,,”.Potremmo a questo punto soffermarci sulle mile sfaccettature della poesia legate alle moltissime allitterazioni, alle assonanze, o alle ripetizioni che rafforzano la compattezza semantica , “…Amore mio- Amore mio-” oppure “attenderti-attendo” o anche “non dirmi-non dirmi”. O anche le molte rime mai solo ornamentali in Caproni, ma elementi portanti a formare il tutto. Ma alla fine, quello che davvero resta dentro di questa poesia sublime, è il senso della morte incombente, una morte che si annida dentro l’attesa della donna amata, in quel bar triste, dove le stoviglie mal lavate hanno cattivo odore. Nell’ attesa dell’ amante, Caproni vede l’annuncio della ineluttabile fine di ogni uomo. “…Ma tu , amore,/ non dirmi, ora che in vece tua già il sole/ /sgorga, non dirmi che da quelle porte/qui, col tuo passo, già attendo la morte/”. Non è casuale che l’ultima parola della poesia sia morte e la prima amore, si ritrova qui la tensione verso l’amore che in realtà è anche un tendersi verso la morte stessa, Del resto, non forse è vero che il momento supremo dell’amore è alla morte assimilabile?
Rosalba de Filippis
Ecco un sonetto monoblocco tipicamente caproniano, in cui sono state cancellate le spaziature tra quartine e terzine. Sono sempre livide e fredde le albe di Caproni; sono esse stesse luoghi di passaggio, come del resto le latterie nebbiose. Molti i trapassati, cioè coloro che sono passati due volte, attraverso quelle “deserte porte” che si aprono e si chiudono inutilmente, attraverso cui attendere la morte. Porte che altrove sbattono, che producono un sussulto, come avveniva, proprio all’alba, durante i rastrellamenti dei tedeschi negli anni della seconda guerra mondiale, di cui Caproni parla nei suoi racconti. Sono quelle porte che ci fanno sentire la nostra condizione di superstiti, sempre più curvi sotto un passato che pesa sulle spalle e con per mano un futuro troppo fragile. Come tanti Enea smarriti, metafora di una condizione umana universale.
Arianna Capirossi
“Alba” è un suggestivo sonetto di Caproni, che rivisita lo schema metrico tradizionale della letteratura italiana con l’introduzione di variate corrispondenze rimiche o di assonanze, e con il costante ricorso all’enjambement. Il componimento descrive gli interminabili momenti di attesa dell’amata in un bar dimesso. Precisissima è la definizione delle percezioni: il freddo rigido dell’inverno accentuato dal marmo dei ripiani del bar su cui il poeta si appoggia; il rumore del tram che sosta alla fermata – a quell’ora deserta – aprendo e chiudendo meccanicamente le porte; il vibrare del bicchiere vitreo tra i denti, forse per risonanza con il passaggio del tram, o forse proprio per il gelo patito. A un certo punto, spunta il sole: ma non è segno di speranza nell’orizzonte del poeta, che già dispera di rivedere l’amata; è piuttosto simbolo del tempo che passa, giorno dopo giorno, e che ci avvicina alla morte. “Morte” è la parola conclusiva del sonetto, e si oppone alla parola di apertura, “Amore”: Caproni ha riproposto, calandolo in una situazione del quotidiano cittadino, solo apparentemente banale, il grande topos letterario di Eros e Thanatos.
© Riproduzione riservata