Uno studio condotto dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano ha identificato alcuni fattori cruciali che permettono di prevedere quali pazienti risponderanno meglio al trattamento con CAR-T, metodologia sempre più spesso adottata per i tumori del sangue.

 

Queste terapie si ottengono modificando in laboratorio popolazioni di linfociti T prelevate al paziente da trattare e successivamente ingegnerizzate, armate per rendere le difese immunitarie in grado di riconoscere e neutralizzare le cellule tumorali. Nonostante i successi ottenuti in vari tipi di tumore, si è osservato che un consistente numero di soggetti risponde solo parzialmente, andando incontro a ricaduta della malattia. Anche dopo ricadute, permane una probabilità del 30% di sopravvivenza, un risultato comunque significativo, ma l’obiettivo è di studiare meglio ogni singolo caso, in modo da offrire ulteriori alternative (ad esempio gli anticorpi bispecifici) a quanti sembrano giovarsi meno delle CAR-T.

 

Uno studio pubblicato sulla rivista British Journal of Haematology e condotto dal gruppo di Paolo Corradini, direttore del Dipartimento di Ematologia dell’Istituto dei Tumori di Milano, in collaborazione con l’Istituto Humanitas, ha analizzato possibili biomarcatori predittivi di risposta e ha identificato trattamenti immunologici che possono prolungare la sopravvivenza in circa un terzo dei pazienti che rispondono solo parzialmente al trattamento con linfociti T modificati affinché esprimano sulla loro superficie un recettore denominato CAR (Chimeric Antigen Receptor) che permette loro di riconoscere l’antigene CD19 presente sulle cellule tumorali. Una volta reinfusi nel paziente, i linfociti T modificati, chiamati appunto cellule CAR-T, sono in grado di individuare e distruggere le cellule tumorali.

 

Le terapie avveniristiche di questo tipo hanno dimostrato di essere efficaci in alcuni tipi di tumore emolinfopoietico, come il linfoma non Hodgkin e le leucemie linfoblastiche, nei pazienti che hanno registrato scarso giovamento dalle terapie convenzionali. Tuttavia, un consistente numero di soggetti, dicevamo, risponde meno bene al trattamento o risponde solo parzialmente.

 

Secondo l’Autore, infatti, “il 40-45% dei pazienti sottoposti a terapia CAR-T sopravvive a lungo termine, cioè è vivo e in remissione a un anno ed è guarito. Tuttavia, rimane il problema del 55-60% dei pazienti che risponde solo parzialmente e va incontro a una nuova ricaduta di malattia a breve termine”. Lo studio avviato dal professor Corradini con l’Istituto Humanitas ha analizzato le risposte inconcludenti e ha descritto una scoperta interessante.

 

Il progetto di ricerca condotto dagli ematologi in collaborazione con esperti di statistica e anatomia patologica dell’INT e con il gruppo del professor Carmelo Carlo Stella della Humanitas, si è focalizzato sull’individuazione di possibili biomarcatori predittivi di risposta alle terapie CAR-T. Si è visto che un livello di DNA circolante tumorale al di sopra di una certa soglia è predittivo di una scarsa risposta alla terapia con linfociti T ingegnerizzati. “Questa osservazione è particolarmente importante perché esistono invece farmaci disponibili, come gli anticorpi inibitori dei checkpoint immunitari o gli anticorpi bispecifici, che potrebbero migliorare la risposta alla terapia in alcuni pazienti, se individuati precocemente”.

 

Nei pazienti che hanno avuto una risposta parziale alle CAR-T e mostrano una progressione di malattia, è possibile ottenere una migliore risposta se si utilizzano trattamenti immunologici, chemioterapia o radioterapia. Un altro fattore importante per l’outcome clinico è il tempo che passa tra il trattamento CAR-T e la progressione della malattia. Corradini ha sottolineato che “se un paziente risponde per quattro mesi e poi mostra una progressione di malattia, la sua probabilità di rispondere a un successivo trattamento con anticorpi bispecifici è molto più alta rispetto a un paziente che mostra una risposta brevissima o assente dopo 30 giorni. Questo ci fa pensare che la prima categoria sia parzialmente immunosensibile e la seconda completamente immunoresistente”.