«SIA CHIARO: io faccio, ventre a terra come si usa dire, la mia campagna elettorale. Non mi tiro indietro. Milito nel Pd. Se guardo fuori dal partito mi cascano le braccia: Salvini, Grillo, Berlusconi… Detto ciò…». Roberto Speranza, ex capogruppo alla Camera dei democratici, è critico con le scelte della maggioranza. Ma resta, non si ferma e va avanti. Non nascondendo le – dolce eufemismo – criticità.
Speranza, la Raggi sbanca a Roma e…
«Sì, vabbè, ho già capito. Ma non ci casco. Non è che essere di bella presenza o, come dite voi giornalisti ‘bucare lo schermo’, sia sufficiente per vincere. Basta banalizzare. Meglio capire. E poi non dimenticatevi che c’è il secondo turno…».
Ci illumini.
«Per leggere il racconto del Paese non si può fare un’analisi puramente estetica. Bisogna vedere che cosa c’è nell’Italia profonda. La rabbia. La rottura con la classe dirigente. L’economia che segna un ‘più’ incoraggiante, ma che ancora non incide positivamente sulla vita vera delle persone».
Va bene, Speranza, ma non vorrà negare che il Pd ha un problema di organizzazione.
«Non lo nego. Lo dico da sempre. Lo dico a Matteo Renzi senza paure o peli sulla lingua. Però, il problema vero è che il Pd in quanto tale non sempre convince».
Ma come? Non siete nati nel 2007 a Firenze come l’«unione dei grandi riformismi»?
«Certo. E lo rivendico ancora. Noi siamo il partito del centrosinistra. Un grande partito di progresso».
Certo: e che piglia più voti nei quartieri bene di Roma e Torino che nelle periferie…
«È vero e preoccupante. Nelle aree del disagio non risultiamo credibili. Dobbiamo rifletterci».
E magari mandare più dirigenti in giro. Fra la ‘ggente’.
«Però per dire qualcosa. Il brutto risultato del primo turno ne è la dimostrazione lampante. Anche in questo caso vale quanto sostengo da anni: l’aspetto organizzativo è fondamentale, ma conta sempre più la politica. Se dici che la priorità è il referendum e non i problemi delle città, è ovvio che perdi voti. Se riduci il partito a un comitato elettorale o ti affidi solo al Capo che parla in tv, alla fine i conti non tornano».
Beh, il Pd è cambiato. Guarda al centro. A Denis Verdini.
«Bell’affare. Porta qualche voto in più di transfughi alle Camere e ce ne toglie una valanga nelle urne. Basta vedere che cosa è successo a Napoli. Con il verdiniano che insulta Roberto Saviano. Roba da matti».
Però, Fassina, Airaudo, Martelloni e la cosiddetta ‘sinistra-sinistra’ non vanno granché…
«Infatti. Avrei preferito che Stefano rimanesse con noi. Per combattere una battaglia dentro il partito e vincerla».
Non ne potevano più del segretario-pigliatutto…
«Tema antico, per me. Io credo che la doppia figura presidente del Consiglio-segretario del partito non porti benefici. Anzi. Vanno distinte. Sono due mestieri diversi. E oggi serve un segretario a tempo pieno».
Quindi lei resta.
«Certo. Il Pd è la più grande speranza per il Paese».
Non è che il vuoto lo stanno facendo attorno al Pd?
«Molti insegnanti hanno smesso di votare il Pd. Io ho cercato in tutti i modi di convincerli. Non possiamo dimenticare i 600mila che sono scesi in piazza per contestare la riforma. O i tanti che non hanno capito perché togliere la tassa sulla casa anche ai miliardari. O perché alzare il tetto del contante. O, ancora, di Verdini. Io credo nel Pd. E mi batto per cambiarlo».
Finalino con Napoli.
«Finalino amaro. La capitale del Sud e un Pd così. Ora, però, pensiamo ai ballottaggi. Poi ne riparliamo…».