Storie di esuli. Contro la tirannide

Chi pensa che solo il fascismo abbia portato lutti atroci, vite spezzate, aberrazioni infinite commette un errore. Anche durante il periodo più “vero” e bello della nostra storia (il Risorgimento) le sofferenze, causate dalle tirannidi borboniche e austriache, furono inenarrabili per chi credeva in una certa idea d’Italia. Ma, nonostante tutto, quegli anni furono formidabili. Specie in certe città. Come Firenze. […]

Chi pensa che solo il fascismo abbia portato lutti atroci, vite spezzate, aberrazioni infinite commette un errore. Anche durante il periodo più “vero” e bello della nostra storia (il Risorgimento) le sofferenze, causate dalle tirannidi borboniche e austriache, furono inenarrabili per chi credeva in una certa idea d’Italia. Ma, nonostante tutto, quegli anni furono formidabili. Specie in certe città. Come Firenze. Anni di riscatto dalla tirannide. Anni in cui, ancora fresca l’impresa dei Mille, in città dilagava una mania, la mania di Sicilia.

Le case editrici pubblicavano romanzi storici di argomento siciliano. Andavano a ruba i giornali che ospitavano firme di autori isolani. Non mancavano mai corrispondenze e cronache di avvenimenti della “redenta” terra del sud. E poi c’erano i siciliani in carne e ossa. Nei salotti di quella Firenze europea ci si contendeva il siciliano illustre o la giovane promessa. Inoltre, la città era spesso luogo sicuro, anche prima della cacciata del granduca, per i perseguitati politici.

E’ così che, alla fine degli anni Cinquanta, si aggira per le nostre strade Francesco Paolo Perez. Nato il 19 marzo 1812, fu uno dei protagonisti del Quarantotto a Palermo (una delle pagine più emozionanti del nostro Risorgimento), fu deputato al Parlamento siciliano. Al ritorno dei Borboni scappa a Genova e quindi si trasferisce a Firenze. La grande occasione arriva nel 1860. I Mille sbarcano a Marsala, sbaragliano l’esercito del Regno delle Due Sicilie e Perez può tornare a casa. Dove fa carriera: sindaco di Palermo e ministro.

Oppure, Emerico Amari, palermitano, classe 1810, che morirà proprio nel giorno della fine del potere temporale del Papa, il 20 settembre 1870. Esule dopo il 1848-49, insegnò diritto penale nell’università fiorentina, combattendo sempre la pena di morte. Anch’egli tornò a casa dopo l’impresa garibaldina, ma mai dimenticò Firenze dove ritornò nel 1867 come deputato.

C’era Filippo Lo Presti: mazziniano, aveva polemizzato col Maestro dopo la mitica rivoluzione palermitana del settembre 1866. Mazzini aveva criticato quel moto popolare troppo venato dal rosso colore del nascente socialismo. Malato di tubercolosi, aveva raggiunto Signa dove il padre era cancelliere della pretura. E proprio a Signa il male lo aveva vinto.

Decisamente “pericoloso” per le polizie dell’epoca, fossero borboniche o sabaude, Antonino Riggio, le cui gesta furono narrate da due grandi studiosi: il fiorentino Elio Conti, il siciliano Gino Cerrito. Riggio seguì ovunque il suo mito, Giuseppe Garibaldi (che gli regalò una sciabola). Partecipò ad Aspromonte nel 1862. Fu ferito a Bezzecca nel 1866. Fu ferito a Mentana nel 1867. Agrigentino di Cattolica Eraclea, nato nel 1842, si era trasferito a Firenze nella seconda metà degli anni Sessanta. Avvocato, aveva sposato una fiorentina doc: Maria Assunta Luti e con lei aveva avuto quattro figli. Rimase nel capoluogo toscano fino al 1871, quando la famiglia lo pregò di tornare in Sicilia. Lui obbedì. Buon sangue non mente, si dice: i suoi, nel 1799 erano stati costretti a fuggire da Napoli per evitare la persecuzione borbonica dopo la fine della Repubblica Partenopea.

Ma non solo di politica si deve parlare a proposito dei siciliani a Firenze. La Nuova Europa, nel 1863, pubblicò il terzo romanzo di un giovane di belle speranze. Il titolo dell’opera era Sulle lagune e l’autore si chiamava Giovanni Verga. Anche lui, prima di diventare famoso, era stato un po’ birichino. Aveva infatti partecipato di persona ai moti di Catania sempre in nome di Giuseppe Garibaldi. Verga non si accontenterà comunque di scrivere su un quotidiano fiorentino. Il 26 aprile del 1869 si trasferirà sulle rive dell’Arno: casa in via dell’Alloro numero 11 prima e in piazza Manin poi (oggi Ognissanti). Conosce tutti: Dall’Ongaro, Aleardi, Maffei, Fusinato, Salvini e il “pericoloso” Bakunin, apostolo dell’anarchismo. Ma il vero sodalizio sarà con un altro siciliano illustrissimo: Luigi Capuana. Sulla loro prima stretta di mano le fonti divergono. Di certo, Capuana vive a Firenze dal 1864. Anche lui (che fissazione…) aveva partecipato al comitato insurrezionale clandestino della sua Mineo (in provincia di Catania) in appoggio a, indovinate un po’?, Giuseppe Garibaldi. Poi aveva scritto una leggenda drammatica in tre canti (titolo: Garibaldi) e, nonostante la contrarietà della famiglia, non aveva avuto dubbi: il suo obbiettivo era Firenze. Se uno voleva fare lo scrittore doveva passare da qui. E lui scrittore (e grande) lo divenne davvero. Non a caso: si era fatto le ossa come critico teatrale. E sapete dove? Alla “Nazione”. Ci mancherebbe altro…

 

 

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