ATTENZIONE. Quando Stefano Fassina dice di aver annunciato il suo addio al Pd in un circolo della periferia sud di Roma perché «lì stanno le mie radici», non è per moda. O per lisciare «er popolo». Effettivamente quest’uomo che quasi mai sorride, che parla di economia con spiccata calata romanesca (celebre la rispostaccia a Christine Lagarde del Fondo monetario: «Se sta zitta, farebbe solo bbbene»), classe 1966, nato a Nettuno, viene dal «popolo». Il padre falegname, la madre casalinga. «Abitavo – disse ad Andrea Marcenaro – in una casetta acquistata da mio padre con mutuo ventennale dopo 45 anni di lavoro, cinque senza contributi». Sembra strano per uno che ha studiato alla Bocconi.
E invece, spiegò, lui si era iscritto nel tempio meneghino per le alte borse di studio: gli permettevano di studiare senza pesare troppo sulla famiglia. Una famiglia comunista – ma non militante – che non gli aveva fatto «mancare nulla». Un’infanzia «bella, ordinaria, da ragazzo di provincia anche un po’ coatto. Correvo sulla spiaggia e giocavo a baseball, sport che a Nettuno va forte. Ho vinto due campionati giovanili, ma perché stavo in una squadra di bravi. Riuscivo meglio negli studi».
STUDI matti e disperatissimi fra i tomi, non propriamente feuilleton, di Smith, Ricardo e Marx. Anche se, a convincerlo a iscriversi al Pci, al partito comunista più forte dell’Occidente europeo, più dei libri fu un professore di storia contemporanea di cui non ha voluto rivelare il nome. Adesione mai rinnegata che lo ha formato anche negli anni negli States come consulente dell’Interamerican Development bank o al Fondo monetario («Dove avevo uno stipendio impensabile: 100 mila dollari l’anno»). Poi il ritorno in Italia, la passione della politica. Con quelle parole dure, da comunista: «austerità cieca»; «svalutazione del lavoro»; «precarietà»; «depressione economica»; «la rotta mercantilista dei conservatori europei»; «insistere sulle regole e sull’ulteriore flessibilità, nel migliore dei casi, redistribuisce la miseria di lavoro che c’è». Concetti ripetuti nei suoi libri. Uno su tutti, dell’anno scorso: ‘Lavoro e libertà. La sinistra nella grande trasformazione’, là dove si narra come nulla sarà più come prima, come questa crisi non sia un ciclo economico depressivo come gli altri e come sia decisivo perseguire con tenacia il dialogo con le parti sociali.
Non meraviglia dunque che Stefano non s’intenda con Matteo Renzi. Quel Renzi che, sprezzante, rispose a un giornalista – gennaio 2014, governo Letta – «Fassina chi?» provocando le immediate dimissioni da viceministro dell’Economia. Quel Renzi bollato come un «portaborse che ripete a pappagallo le ricette della destra». Quel Renzi caratterizzato da un’«intolleranza inaccettabile verso posizioni diverse dalla sua» e che «mostra disprezzo nei confronti di chiunque lo critichi».
LUI, che non ride mai – rara avis in un ceto politico che invece ride in continuazione non si capisce perché – e che è vissuto «in mezzo a quelli che tirano avanti con mille euro al mese». E che magari lo contestano a una manifestazione sindacale a Roma, salvo poi abbracciarlo perché lui non scappa e dice «sono dalla parte vostra». Ora ha detto basta al Pd già turborenziano. Come si diceva nell’Ottocento, ha «preso cappello», Fassina. Fassina chi? Stefano. Da Nettuno, a sud di Roma.