Vado spesso in libreria. Per piacere. Per dovere. E perché scopro sempre qualcosa di nuovo. Meglio: qualcosa di vecchio che mi era sfuggito. E ieri, puntualmente, il… fenomeno si è ripetuto. In uno scaffale dedicato agli inimitabili tascabili Feltrinelli, campeggiava Giuseppe Culicchia. Titolo: “Sicilia, o cara. Un viaggio sentimentale”. E quando vedo la parola Sicilia; quando l’occhio mi cade sull’aggettivo “sentimentale” non riesco a trattenermi. E compro. Senza se e senza ma, come disse Sergio Cofferati nella manifestazione sindacale di Roma del 2002. Le ragioni sono molte. Non ve le racconto perché sono antiche e molto personali. Ma vi posso assicurare che hanno una forza inaudita nelle scelte di lettura e, chissà, anche di vita (una sola puntualizzazione: non sono siciliano). La certezza di aver colpito nel segno si è rivelata tutt’intera quando mi sono accorto che le pagine di Culicchia (scrittore che non ha bisogno di presentazioni: nato nel 1965, raggiunge la notorietà negli anni Novanta, in particolare con “Tutti giù per terra”, è traduttore tra i più apprezzati di romanzi statunitensi tra i più apprezzati e scrive con prosa secca e chiara) narravano di Marsala, la garibaldina Marsala. Culicchia racconta un viaggio sentimentale da lui compiuto nel 1972 e poi ripetuto, in altri contesti e altre occasioni, più volte nel corso degli anni. Ma, soprattutto, lo scrittore torinese pennella la storia del rapporto col padre, cui è dedicato il libro. Il padre Francesco, per gli amici marsalesi “Cicciu Piruzzu”. Le parole dell’autore sono elegiache e pervase dalla serena consapevolezza che il tempo è una feroce mannaia. Il passato tale resta, il passato è l’essenza per capire e per continuare a vivere. Che non vuol dire, facile sarebbe l’obiezione, avere la testa rivolta all’indietro. Significa, molto più semplicemente, che certe sensazioni e certe emozioni ti restano appiccicate per sempre, mai te ne scorderai e, chissà, proprio per questo ti si attaccano di più nel cuore e nella mente.

Innumerevoli gli spunti. Molto efficaci per due terzi del libro, un po’ meno nella parte finale dove prevale un aspetto gastronomico divertente e leggero eppur contrastante con il forte spessore letterario dell’opera. Il dato di fondo che tiene il lettore, come si diceva una volta, attaccato alla poltrona ha due facce: le emozioni del padre (“un giorno aveva lasciato l’isola. Ma l’isola non aveva lasciato lui”) e le sensazioni del giovanissimo Giuseppe (“L’aria della Sicilia era un’aria calda, salata, fiorita”). Il padre, figura immortale, idealtipo, verrebbe da dire, di una certa Italia: “Incrociai gli occhi verdi e profondi di mio padre e vidi che bruciavano. In fondo a quel treno c’erano tutta la sua infanzia, tutta la sua giovinezza, che lui aveva lasciato un giorno del 1946 per emigrare a Torino dove aveva visto per la prima volta la neve negli inverni freddissimi degli anni Cinquanta e dove non ti davano un lavoro se non avevi la residenza. Con quei suoi occhi verdi e profondi aveva visto che dicevano NON SI AFFITTA A MERIDIONALI”.

Gli occhi del padre, quasi un leit-motiv delle pagine culicchiane: “E mentre mi raccontava queste cose, gli occhi verdi e profondi di mio padre bruciavano di ricordi”. La dolce nostalgia del passato, il continuo alternarsi di emozioni e sentimenti semplici rendono la lettura veloce, priva di pause (io ho passato tre ore in piena notte dopo una giornata infernale e sono praticamente rinato), che ti tiene stretta senza farti male. O meglio: ti fa capire quanto, in fondo, la vita, come amava ripetere Italo Svevo, non sia né bella né brutta. Ma originale.

Questi brevi appunti non rendono l’idea della bellezza del romanzo-memoria. Sappiate che, però, se siete di quelle parti o da quelle parti avete amato qualche scheggia resterà nel vostro cuore. O, nel migliore dei casi, molta voglia vi verrà di andare laggiù, dove il sole, le onde e le vele bianche disegnano orizzonti infiniti. In quella Marsala che, dopo esserci stato “non ti lascia più. Impossibile dimenticarla”. Già, perché alzi la mano chi, fin da bambino, non ha sempre pianto quando ha lasciato un posto a cui era affezionato.