PENTITO? Ma figuriamoci. Mai ho pensato di rientrare. Così come, diciamo la verità, mai e poi mai avrei pensato di restare in Parlamento per trent’anni…». Luciano Violante, classe 1941, già magistrato di primo piano, già presidente della Camera dal 1996 al 2001 e della Commissione antimafia negli ‘anni terribili’ (1992-94), non è tipo da ‘anda e rianda’. Insomma, non è passato dalla magistratura alla politica e di nuovo alla magistratura come molti altri. Il giorno in cui il plenum del Csm rinvia per l’ennesima volta la decisione sul periodo di stacco fra la carriera politica e il ritorno in magistratura, la sua voce suona come una testimonianza di rigore.
A parte lei, perché un magistrato che ha fatto politica vuole rientrare nelle aule di giustizia?
«Non saprei. Non c’è un criterio o una regola. E poi non credo che sia sempre un dato negativo questo ritorno alle origini. Mi vengono in mente persone che si sono comportate egregiamente come Pier Luigi Onorato. Casomai vien da pensare che ci vorrebbe più filtro nella scelta. Però il vero problema è forse un altro».
Quale?
«La subalternità della politica alla magistratura. Di più: la richiesta della politica ai magistrati di risolvere questioni scottanti. In questi giorni sul caso Marino e Roma, sono stati richiesti esponenti della giustizia per ruoli politici. Chiaro segno di debolezza».
Politica che segna il passo.
«Sì, e perde di sovranità. La società politica usa parametri giudiziari. Di più: non afferma la sua sovranità come dovrebbe. E la giustizia, a volte, usa parametri politici».
Sarebbe a dire?
«Il politico entra nel giudiziario e viceversa in maniera troppo massiccia. Certificando così una commistione di ruoli che è un danno per la democrazia. C’è chi vorrebbe trasferire la materia, delicatissima, dell’immunità parlamentare dalle Camere alla Corte costituzionale. Non sono d’accordo. Così si dimostra una grave sfiducia nelle proprie capacità e soprattutto nella capacità di correggersi».
Ma non sarà anche un problema di formazione della classe politica e che i partiti ormai sono ridotti a puri comitati elettorali?
«Posso essere d’accordo con questa analisi. Eppure il discorso riguarda tutti i segmenti della società. I partiti, che hanno insegnato all’Italia a leggere e scrivere, non assolvono più alla loro funzione sociale, come del resto la Chiesa Cattolica. Né sezioni né oratori, verrebbe da dire. Insomma, nessuno si impegna più in un processo di formazione delle nuove leve. Basti pensare a scuola e famiglia. Prima c’era un mutuo soccorso, adesso sono corpi separati. Il partito da comunità di donne e uomini che perseguono un preciso obiettivo è diventato personale e leaderistico. Chi non ha potere non viene riconosciuto. Si assiste a una spettacolarizzazione che impedisce ai più seri di emergere».
Quindi nessuna speranza di una politica meno subalterna?
«Credo che, prima o poi, emergerà un duro soggetto regolatore. E, allora, saranno guai per la magistratura che scambia l’indipendenza con una pervasività insistita nei confronti della politica ed è ancora incapace di autoriformarsi. Non è singolare che negli atti giudiziari vengano sempre più spesso citati personaggi politici famosi che nulla hanno a che fare col processo? Anche nella giustizia, a volte, lo spettacolo prevale sulla verità».