«I FIGLIUOLI vengono, non perché lei li voglia, ma perché debbono venire; e si pigliano la vita; non solo la loro, ma anche la nostra si pigliano. Questa è la verità. E siamo noi per loro; mica loro per noi». Una riflessione che è quasi un’epigrafe in cui molti lettori, ne siamo certi, si riconosceranno. La scrisse Luigi Pirandello e le sue parole assumono un significato particolare se ci addentriamo nell’intimità di cotanta famiglia. La moglie: Maria Antonietta Portolano, sposata dal Nostro nel gennaio del 1894. La musa ispiratrice: Marta Abba, famosa attrice teatrale. I figli: Stefano (anch’egli scrittore e recentemente riscoperto dalla critica); Fausto, pittore, tra l’altro molto sensibile al tema della solitudine e autore di nature morte e vedute di città di notevole qualità; Lietta, l’amatissima figlia (di più: la preferita) che chiamava il padre «Papettino mio»: «È inutile—scrive —. Mi manca sempre e tanto, ogni giorno, cento volte in un giorno – Papettino mio – anche in questo tempo felice della mia esistenza, la tua parola, la tua presenza, il tuo sguardo, il tuo sorriso, le tue furiose rabbiette e che so io». L’occasione per riannodare i fili di questa ‘‘holding cultural-familiare’’ ci è offerta dalle straordinarie foto (ben 625) frutto di una mostra che ha toccato le principali città europee e ora tornata in Sicilia (a Noto) e raccolte nel volume I Pirandello. La famiglia e l’epoca per immagini a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, studiosi siciliani già autori di numerosi studi sulla letteratura dell’Isola (edizioni la Cantinella, col patrocinio del Comune di Noto, euro 45). L’operazione è imponente (e ben riuscita): una densa introduzione dei curatori e quelle immagini che, senza retorica, ci restituiscono il gusto di un’epoca, se non addirittura di una saga familiare. In tal senso risulta assai affascinante anche il lato privato dei Pirandello alle prese con un padre ‘‘ingombrante’’ e con una madre affetta da gravi disturbi mentali. E quindi come non leggere l’adesione al fascismo con occhi diversi quando Luigi si lamenta di Mussolini che lo rimproverava di avere un—parole testuali— «brutto carattere»? E dire che questa adesione era stata clamorosa: «Eccellenza—scriveva il 17 settembre 1924 —, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come massimo onore tenermi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera». Ma non sono tanto le parole gonfie di retorica a colpire, bensì la data: 27 giugno, Matteotti è stato assassinato dai sicari fascisti pochi giorni prima, il 10. Eppure, come si legge nelle pagine di questo volume, il suo rapporto col fascismo fu tutt’altro che sereno.

NON SI CREDA che la famiglia fosse percorsa da tensioni o che vi fossero contrasti insanabili come spesso accade tra la ‘‘gente famosa’’. Ad esempio, Luigi scrive: «Sono, figlioli miei, in tali condizioni di spirito, che la vita non è quasi più sopportabile», ricevendone questa risposta da Stefano: «Perché devi avere, Papà mio, questo senso atroce della tua vita e di noi che ne siamo le creature? Tu hai sempre dominato te stesso e la tua sorte. Se tu avessi avuto una sorte più facile a che ti sarebbe servito avere tanta energia?». E gli esempi potrebbero essere moltissimi. Non vogliamo dimenticarci, però, di un altro protagonista della ‘‘famiglia’’: Agrigento-Girgenti. Si legge in una lettera del 1889 (quindi Luigi aveva solo 22 anni): «Salutamela, codesta mia terra natale, nel cui grembo, quando che sarà, vorrò riposare per sempre, senza un nome che mi rammenti su un sasso agli uomini, i quali forse un giorno potrebbero venire a disturbarti».