Pci, addio

«Bah… sembra che da Berlinguer si sia arrivati direttamente a Renzi». Il suo nome è Occhetto, Achille Occhetto, classe 1936. Venticinque anni fa mise fine alla storia del più grande partito comunista dell’Occidente. Ma si rende conto che macello ha combinato con la svolta della Bolognina? «Fu un’emozione indescrivibile. Un evento di non secondaria importanza, […]

«Bah… sembra che da Berlinguer si sia arrivati direttamente a Renzi». Il suo nome è Occhetto, Achille Occhetto, classe 1936. Venticinque anni fa mise fine alla storia del più grande partito comunista dell’Occidente.

Ma si rende conto che macello ha combinato con la svolta della Bolognina?

«Fu un’emozione indescrivibile. Un evento di non secondaria importanza, mettiamola così. Però il punto è un altro».

Ce lo sveli.

«È questa sorta di damnatio memoriae che mi colpisce. Sembra che da Berlinguer a Renzi non ci sia stato nulla. Ci vorrebbe una bella seduta psicanalitica collettiva».

La prende sul personale?

«Ma no. Ho solo scoperto che invece di essere uno dei protagonisti della svolta sono colui che ha perso le elezioni del 1994 contro Berlusconi».

Non l’hanno mai invitata alle celebrazioni per Berlinguer. E non le hanno chiesto una testimonianza.

«Eppure, come si dice, io Enrico lo conoscevo bene. Gli ero davvero molto vicino. E, in certi momenti, mi viene in mente un episodio che ancora mi dà i brividi».

Quale?

«Anno 1984, si vota per le Europee. A Roma stavamo organizzando la seconda fase della campagna elettorale. Io dissi a Enrico che doveva andare a Padova…».

Quella Padova?

«Sì, proprio dove ebbe il malore fatale. Lui sorrise mesto: ‘Sono stanco’. E io: ‘Guarda che poi devi volare in Sicilia, a Comiso. Rispose così: ‘Se sarò ancora vivo’».

Era stanco.

«Molto. Ma quel che più mi colpì in quegli anni fu la tensione che si respirava attorno a lui».

Cioè?

«In molti, troppi, non digerivano il suo insistere sulla questione morale, sulla necessità che i partiti facessero un passo indietro».

Pci dei ‘vecchi’ diviso. Pci dei voi giovani compatto nel metter fine alla parola comunismo.

«No, no. Un attimo. Io ero convinto. Io. E volevo porre fine a quella fase storica da sinistra. Altri, invece…».

Si riferisce a D’Alema?

«Lo avevo scelto come mio principale collaboratore. Ma non poteva esserci comunanza intellettuale e umana».

Per quale motivo?

«Perché D’Alema visse la svolta come una dura necessità. Le diede un’interpretazione minimalista. Fece della pratica del ‘governo per il governo’ una costante. Scese a compromessi incredibili con Berlusconi».

Nel Pd, però, qualcosa del suo Pds c’è.

«Sì e no».

Vale a dire?

«Ricordo quando nella casa dei miei genitori venivano i partigiani comunisti, socialisti e azionisti. La sinistra cristiana. Tutti sognavamo l’unione dei grandi riformismi. E il Pd questo doveva essere. Invece è stata una fusione a freddo. Tra apparati..».

… che ha portato a Renzi…

«Che sta facendo una fusione a caldo. Ma troppo impostata su basi leaderistiche. Certo, è una speranza liberatrice. Però tutto dipende dal successo del capo. E se il capo non vince son dolori».

Altre tessere dopo il Pds?

«No».

Indipendente. E alleato con Di Pietro nel 2004.

«Che errore. Il fatto è che percepii il riaffacciarsi della questione morale».

Le piaceva Di Pietro perché affetto da anti-craxismo.

«Figuriamoci. Craxi è figura complessa, capì che bisognava metter fine al socialismo ottocentesco salvo impantanarsi in una gara devastante con la Dc. Rimase avvinghiato al potere. E fu la sua fine».

E lei invece con la sua ‘gioiosa macchina da guerra’…

«Persi le elezioni. Ma sono vent’anni che mi rinfacciate questa storia. Il che dimostra quanta superficialità ci sia nell’analisi politica. Era solo una battuta».