Dunque. In terra turca il tentativo di colpo di Stato – i cui aspetti, non scopro nulla, mi paiono ancora assai oscuri e sospetti – induce a più di una riflessione. Del resto parlano i numeri (che cambiano di ora in ora). Eccone alcuni:

– 264 morti (di cui 173 civili)

– 15mila dipendenti del ministero dell’Istruzione sospesi

– 1.557 decani dell’Università cacciati

– 24 licenze di stazioni radio ed emittenti tv revocate

– 7.889 agenti di polizia sospesi

– 9.322 provvedimenti giudiziari a carico di giornalisti

E potrei continuare. Di fatto, la fragile democrazia turca è morta. Non dico che coi militari – una volta laicissimi difensori dello Stato di Ataturk –  sarebbe stato meglio, ma sicuramente il neonazismo islamico dell’Isis avrebbe avuto qualche grattacapo in più. Il problema è che la tradizione militare turca parla chiaro. E parla il linguaggio della persecuzione dell’eroico popolo curdo, cui deve andare tutta la nostra solidarietà e non solo dal punto di vista ideale. Quindi, meno democrazia, più sultanato. Il problema è che lì vicino c’è uno Stato fu comunista reale che non ha un presidente, bensì uno zar. Se guardi in basso trovi al Sisi in Egitto (caso Regeni ancora nelle nebbie: una vergogna). Peggio che andar di notte. Il tutto condito da quanto accade Oltreoceano con una corsa alla Casa Bianca che vede in campo due attori francamente imbarazzanti. Se condisci il tutto con un’Europa debole e un Regno Unito che affida la sua politica estera al campione della Brexit, c’è davvero da aver paura.

Senza contare gli spettri economici. Non dimentichiamoci che siamo il quarto partner commerciale di Erdogan. Il quale vuole ripristinare la pena di morte. Ponendosi così definitivamente fuori dalla possibilità di entrare nella Ue. Giorni faticosi e tenebrosi ci aspettano. Occorre reagire quanto prima declinando il verbo della solidarietà tra i popoli e la ferma opposizione a tutte le dittature. In gioco c’è la nostra sopravvivenza.