Oblio quirinalizio

UNDICI presidenti, undici uscite di scena. Riservate, dolorose, arrabbiate, silenziose. Tra la folla o in auto alle prime ore del mattino. Tra gli applausi o tra un’ostile indifferenza. Sempre, quasi sempre, destinate a far cadere il protagonista nell’oblìo. È questo il destino dei Capi di Stato. A parte Francesco Cossiga che invece continuò a battagliare. […]

UNDICI presidenti, undici uscite di scena. Riservate, dolorose, arrabbiate, silenziose. Tra la folla o in auto alle prime ore del mattino. Tra gli applausi o tra un’ostile indifferenza. Sempre, quasi sempre, destinate a far cadere il protagonista nell’oblìo. È questo il destino dei Capi di Stato. A parte Francesco Cossiga che invece continuò a battagliare. Diventano testimonianze viventi di sette anni vissuti (quasi) sempre pericolosamente. Tra agguati e tensioni inaudite. Sì, perché il famoso ruolo di ‘notaio’, in realtà, non è mai veramente esistito. Pura teoria. Un dato accomuna la stragrande maggioranza dei presidenti della Repubblica che se ne vanno: non tornano ai rispettivi partiti, preferiscono il leggendario gruppo misto, quasi interpretassero ancora il ruolo di garanti.

PENSIAMO solo a Sandro Pertini, ancor’oggi il più amato dagli italiani, il più ‘mediatico’, il più affettuoso. Quando divenne senatore a vita, smise con la politica-politica. Si concesse solo la culturalmente prestigiosa poltrona di presidente della Fondazione Filippo Turati. Del Psi mai più prese la tessera. Perché chi fa il presidente indossa un vestito che è poi impossibile da cambiare. Forse perché la tessera socialista portava la firma di un segretario come Bettino Craxi. Si volevano bene. Ma non si amavano. Le loro strade politiche erano sempre state troppo diverse. Già, Pertini, l’antifascistissimo Pertini che visita la camera ardente del fascista non pentito Giorgio Almirante nel 1988 perché il leader del Msi non era un nemico, ma un avversario. Al contrario, un altro socialista, Giuseppe Saragat, divenuto senatore a vita nel 1971, non resistette. Tornò nel suo Psdi e ne divenne presidente nel 1976.

POI, è chiaro, le passioni dei capi dello Stato assumono sfumature diverse. Magari c’è chi torna a pieno regime alle certezze antiche. Come Luigi Einaudi. Raccontano che, subito dopo la fine del mandato, guardasse rapito gli scaffali pieni di volumi e accarezzasse con particolare voluttà le copertine degli Essais di Montaigne, le Affinità elettive di Goethe (il quarto romanzo dello scrittore uscito nel 1809) o L’Ancien Régime di Alexis de Tocqueville. Continuando a fare quel giornalismo che, secondo lui, aveva una regola: «Trattare un solo argomento per articolo, non mettere incisi, non far cuocere troppi polli in uno spiedo».

IMPOSSIBILE dimenticare Giovanni Leone. Si dimise dopo una violenta campagna stampa e le pressioni di radicali e comunisti. Seguì un periodo di impegno nella Commissione giustizia, ma anche un amarissimo silenzio. Ci volle il 1998, in occasione dei suoi novant’anni, perché Marco Pannella ed Emma Bonino gli presentassero le scuse. E ci volle il 2006 perché Giorgio Napolitano riconoscesse pienamente la correttezza del suo operato.

CHI PIÙ di tutti non abbandonò l’impegno politico fu Cossiga. Viaggi in Irlanda e Catalogna (ove imbastì una feroce tenzone politica con il premier spagnolo José Maria Aznar, centralista fino al midollo). Lui, Cossiga, che amava le autonomie regionali e che, a esempio, presentò nel 2006 un ddl costituzionale per il riconoscimento della Nazione Sarda. Sia chiaro: il suo capolavoro fu, a detta dei più, la fondazione dell’Udr determinante per la formazione del primo governo D’Alema. E che permise al primo comunista italiano di varcare Palazzo Chigi come assoluto protagonista.

ATTIVO per la difesa della Costituzione fu Oscar Luigi Scalfaro. No, non super partes. Aderì, senza iscriversi, al Pd e polemizzò, ricambiato, con la destra. Fu anche personaggio da romanzo. Come in Tevere di Luciana Capretti, uno dei casi editoriali del 2013.