PER LUI, Matteo Renzi non ha mai mostrato antipatia, anche prima della conversione attuale, nonostante i continui cambi di fronte sulla riforma su cui si voterà il 4 dicembre: «Se c’è una persona con cui ho voglia di dialogare è Cuperlo», scandì nel dicembre 2013. Tanto da offrirgli la presidenza del partito (prima rifiutata, poi accettata, infine rigettata). Chissà, forse vale l’antica storia degli opposti che, fatalmente, si attraggono. Ve lo immaginate un Renzi che dice: «No, perdonami, ma dobbiamo rimandare l’intervista perché sono appena sceso dall’aeromobile»? (e magari poi è salito a bordo di un’«autovettura»).
Oppure che, in pieno agosto, con le pagine politiche dei giornali deserte come il Sahara, ti dica: «Scusami, proprio non posso. Ho una montagna di libri da leggere»? No, ovviamente. ‘Matteo’ mai avrebbe risposto così. ‘Gianni’, invece, ha un sapore antico, un sapore un po’ amaro di cose perdute.

L’ELOQUIO senza enfasi. Il quasi bisbigliar della sua voce. Quelle frasi sussurrate che presuppongono un’accurata preparazione seppur ignara delle conseguenze: «Il futuro entra in noi molto prima che accada» dell’immortale poeta boemo Rainer Maria Rilke. Non propriamente un inno all’ottimismo, componente essenziale della propaganda politica. E dire che lui, classe 1961, di Trieste, ultimo segretario della gioventù comunista, politico di professione, si è laureato al Dams di Bologna nel 1985 proprio in sociologia della comunicazione. Lui che, nel 2001, venne nominato responsabile comunicazione dei Ds a guida Fassino. Con cui peraltro andò a schifìo, i due non si prendevano, l’ex segretario della Quercia accettò solo che «Il Cielo è sempre più blu» di Rino Gaetano divenisse la colonna sonora delle iniziative diessine. Lui, il «diversamente dalemiano», come ebbe a scrivere una giornalista di grido, che del lìder maximo più che «ideologo» era un «arricchitore culturale».
Eh sì, perché la parola cultura è fondamentale nel vocabolario cuperliano. Appena eletto, correva l’anno 2008, in Toscana, sorrideva gaiamente perché poteva andare spesso al caffè «Le Giubbe Rosse», già ritrovo – diversi anni prima – di intellettuali del calibro di Pratolini, Bilenchi, Vittorini, Quasimodo e dei protagonisti di futurismo, ermetismo, neoavanguardie.
UNA vita vissuta sempre con lo sguardo all’insù, zainetto in spalla pieno di libri («considero Joe R. Lansdale il più grande scrittore contemporaneo», vabbè), quell’aria di uno che sta in Transatlantico un po’ per caso. Che può permettersi, appunto, di elaborare pensieri stupendi: «L’importante non è avere una tradizione, ma cercarla». Mica chiacchiere. Pillole di saggezza perché trovare uno che, sui famosi divanetti del Transatlantico a Montecitorio, legge tomi sulla letteratura statunitense è impresa ardua. Con conseguenze non da poco. Dall’evangelica «la politica non è speranza. E per costruire speranza c’è bisogno di futuro» alla più concreta «non vorrei mai stare in una corrente che mi adottasse come leader» (circostanza avveratasi). E ancora lo strappo dal leader. Già, con D’Alema non si sta più «sul palco d’onore della Scala della politica».

CON D’ALEMA – pacatamente, garbatamente, mai dimenticando l’antica comunanza – si polemizza: «Tu avessi fatto di più», sospirò nel marzo 2015. Ingrato, sibilò qualcuno. E ora, hanno già cominciato: poco ci manca che lo chiamino, quelli del No, «traditore». Lui ha replicato: «Non sono incoerente, ho ottenuto sull’Italicum quanto avevamo chiesto». Eppure, anche in questo caso, l’altezza del suo pensiero aiuta a disegnare il suo profilo: «Faccio parte di una generazione che ha rischiato di finire schiacciata tra fratelli maggiori poco generosi e fratelli minori molto ambiziosi».
Ecco, proprio così: sempre in mezzo al guado…