Troppo facile? Mah. Eppure, non ci pare peregrino dire che un libro ti rapisce sin dall’epigrafe d’apertura. Bianca Stancanelli, nel suo “La città marcia” (Marsilio), cita l’immortale George Orwell: “Chi comanda il passato, controlla il futuro”. Verissimo. Peccato che il dettame, in tempi di società liquidissima, sia poco praticato. Meno male che c’è la Stancanelli, dunque. Siciliana, già prima firma di quella magnifica avventura che fu “L’Ora” di Palermo (il vero giornale antimafia del Novecento), autrice di altri saggi e scrittrice di certo valore narrativo. Un momento: proprio sulla parola “scrittrice” richiediamo la vostra attenzione. Sì, perché la Stancanelli non può essere definita “giornalista” e basta. Lei, pienamente conscia dell’insegnamento di Leonardo Sciascia – di cui, peraltro, chi scrive è tutt’altro che acritico sostenitore –, descrive, con consumata perizia, il “contesto”, regalando al lettore un registro stilistico degno di un romanziere. La Stancanelli è dunque una scrittrice politica e il matrimonio col giornalismo non subisce tradimenti o sciocche scappatelle.

Le 271 pagine del libro sono un appassionato reportage su uno scomodo mistero italiano: il delitto di Giuseppe Insalaco del 12 gennaio 1988. Insalaco, il democristiano della Palermo-Beirut degli anni Ottanta, quando Cosa Nostra, proprietà saldamente in mano ai corleonesi (Totò Riina, tanto per capirsi), semina terrore con delitti feroci. Lo scaltro politico democristiano gioca in un risiko politico-affaristico che ha come protagonisti Vito Ciancimino, l’essenza del peggior potere dc, o Salvo Lima, potentissimo proconsole andreottiano in quell’Isola, la Sicilia, che, anno 1787, un giovane scrittore tedesco, Johann Wolfgang von Goethe, prende a esempio per capire in anticipo gli accadimenti d’Italia. Un politico, Insalaco, presto dimenticato. Troppo, è la tesi di fondo della Stancanelli-detective dei perché di questo oblìo. Siccome il recensore non è crudele, eviterà di rivelare al lettore le conclusioni o, comunque, le solide proposte interpretative dell’Autrice. Sappiate però che, finito questo “racconto siciliano di potere e di mafia”, resterete di ghiaccio, come si soleva dire un tempo. Troppe coincidenze, troppi due più due che fanno cinque, pur non essendo la nostra scrittrice un’appassionata dietrologa.

Stancanelli usa colori accesi per delineare il profilo dei protagonisti, non ha timori reverenziali. E coglie il senso, l’odore, le paure e le speranze di una città come Palermo. Irresistibile per chi ci è nato. Affascinante per chi ci è stato. Indimenticabile per chi ci torna ogni tanto, quasi costretto dalla nostalgia canaglia. Torna – prepotente – il magistero sciasciano: la certezza, cioè, che raccontare la storia contemporanea sia il modo più giusto di fare letteratura. Pensate solo ai protagonisti, oltre a Insalaco, interprete principale. Pensate a Piersanti Mattarella, il cui delitto è stato per la Sicilia ciò che il delitto Moro è stato per l’Italia. E riflettete sul fatto che se quel 6 gennaio 1980 non fosse stato ucciso, ora non avremmo “sul colle più alto” un uomo come Sergio Mattarella, il fratello mite e gentile, l’uomo di cultura che avrebbe serenamente preferito continuare i suoi studi di giurisprudenza. Un esempio tra i mille: i delitti di mafia – il caso di Piersanti che voleva un partito con le carte in regola non è casuale – sono stati spesso oggetto di strali polemici, a destra, se definiti “delitti politici”.

Insalaco, dunque. Che all’ultimo amore della sua vita sussurrò: “Quando avrò sessant’anni, ti dirò tutta la verità su di me”. No, non un eroe come Pio La Torre, il politico-simbolo delle infuocate battaglie per le terre ai contadini o contro l’istallazione dei missili a Comiso. No, egli non ha prospettive di brillante carriera nazionale come Michele Reina (anch’esso assassinato dalla Mafia). Arrivato a Palazzo delle Aquile, diventa primo cittadino per 101 giorni, salvo essere brutalmente defenestrato quando osa fare riferimento ai rapporti tra crimine organizzato e politica. In giorni, tra l’aprile e il luglio 1984, in cui, guarda un po’, Tommaso Buscetta decide di collaborare con Giovanni Falcone, una svolta nella storia d’Italia: Cosa Nostra non è invincibile (bensì una “montagna di merda”, come dice un altro eroe, Peppino Impastato).

Ma non crediate che l’indagine della Stancanelli ricomponga solo i fili di un decennio terribile. Le premesse sono ben inquadrate. E quindi non mancano assassini come Salvatore Giuliano, eccidi come Portella della Ginestra (il massacro, datato 1 maggio 1947, di contadini socialisti, comunisti e repubblicani che erano andati a celebrare in allegria la festa del lavoro e che segna l’inizio della strategia della tensione in Italia con il patto maledetto tra apparati dello Stato, manovalanza neofascista e mafia). Sono ricordati fatti all’apparenza minori, come la morte di Calogero Caiola: il giorno della strage di Portella aveva riconosciuto alcuni assassini.

Insomma, gli spunti del racconto stancanelliano sono tantissimi. Volutamente, chi scrive insiste sull’ambiente e su tutti i personaggi di questo dramma in più atti. Perché pensare a “La città marcia” come a un’indagine su una vittima di Cosa Nostra sarebbe riduttivo assai. Così come confinare queste bellissime pagine a sicilianità tout-court. Non è così. Stancanelli – ricordando l’immensa Giuliana Saladino – scrive il suo romanzo civile. Un romanzo aspro e dolce al tempo stesso che ci racconta la storia d’Italia e la reazione della parte migliore del nostro Paese. Pochi anni prima di quel devastante 1992. Quando due eroi – Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – furono ammazzati. Una dimostrazione lampante che non è beato il Paese che non ha bisogno di eroi… Con una verità, scolpita a pagina 227: “Un vecchio, cinico gioco che si gioca nella storia dei grandi delitti siciliani vuole che più il delitto è grande, più si invochino piccole cause”. Della serie: facciamo del dubbio una ragione di vita. Guai a chi ha troppe certezze.

PS Un solo rimprovero: come mai non è stato inserito un indice dei nomi? Perché non c’è un indice dei luoghi? Di più: perché non tornare al caro, antico vezzo di stendere un “indice della cose notevoli”?