Il Colle e i partiti

CHE ABBIA perso la pazienza è un dato di fatto. Che sia preoccupato e che i toni siano durissimi anche. Ma sbaglierebbe chi immaginasse un improvviso cambio d’umore. No, Giorgio Napolitano prosegue un lavoro iniziato da anni. Lo fa con durezza e, ci sembra di capire, anche con un certo qual senso di sfinimento. Nel […]

CHE ABBIA perso la pazienza è un dato di fatto. Che sia preoccupato e che i toni siano durissimi anche. Ma sbaglierebbe chi immaginasse un improvviso cambio d’umore. No, Giorgio Napolitano prosegue un lavoro iniziato da anni. Lo fa con durezza e, ci sembra di capire, anche con un certo qual senso di sfinimento.

Nel mirino del Colle ci sono loro, i partiti, che non fanno politica dando così spazio all’antipolitica. Invita tutte le forze politiche a una selezione della classe dirigente (chiarissimo il riferimento ai giovani) e ribadisce quanto più gli sta a cuore. Come in quel 22 aprile 2013 quando, a Montecitorio, pronuncia il discorso di insediamento per il secondo mandato.

SI COMMUOVE, prende tantissimi battimani (solo gli inutili grillini non partecipano alla ‘festa’ limitandosi ad alzarsi in piedi), ma non fa sconti. E scandisce: «Il vostro applauso non induca a nessuna indulgenza». Ancora: «Troppe le omissioni, i guasti e le responsabilità tra le forze politiche». Per non parlare delle convenienze, tatticismi e strumentalismi che condannano «alla sterilità e a esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento». Partiti dunque sul banco degli imputati anche per una colpa suprema: la mancata riforma della legge elettorale che, dice il presidente al Parlamento, «ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare». Anche in quella solenne occasione, Napolitano critica il Movimento 5 Stelle, pur se con toni meno preoccupati, evidenziando l’utilità di una «feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento».

GLI ESEMPI di questa continua e costante critica al sistema dei partiti potrebbero essere molti di più. Agli inizi di questo dicembre chiarisce come su eventuali dimissioni lui e solo lui può decidere. Oppure, a settembre, quando esterna l’irritazione per le continue fumate nere a proposito dell’elezione dei giudici della Corte costituzionale («gravi interrogativi»). Né va dimenticato quel 13 luglio del 2013, due mesi dopo l’elezione al secondo mandato. Alla Conferenza dei prefetti è esplicito: per superare crisi economica e per fare le riforme sono inammissibili «meschini e convulsi calcoli di convenienza di qualsiasi specie» dei partiti.

MA LA POLEMICA contro i partiti ha punte non prive di spessore anche negli anni del primo mandato. Due puntate decisive caratterizzano il panorama politico del 2012. In una lettera a Gianfranco Fini e Renato Schifani, rispettivamente presidenti di Camera e Senato, datata 9 luglio, chiede un rapido accordo sempre sulla benedetta legge elettorale, sottolineando come solo e solamente il Colle abbia la facoltà di decidere su eventuali elezioni anticipate, coi partiti colpevoli della mancata intesa. Passa poco tempo ed ecco che, il 29 luglio, riceve Mario Monti: «Abbiamo constatato, come, a distanza di oltre 20 giorni, lo sforzo sollecitato con lettera del 9 luglio non abbia prodotto i risultati attesi».

Della serie: proprio non volete capire. Specie se consideriamo il fatto che il Capo dello Stato ha una storia politica precisa. Tutta, ma proprio tutta, dentro i partiti e per il sistema dei partiti. Con un faro. L’articolo 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».