ENZO TORTORA? Storia. Ormai ‘digerita’. E invece no. Quelle parole – dolcissime, disperate, gonfie di speranze, vibranti di rabbia – fanno davvero male. Lame infuocate che ti penetrano. E, nonostante Pannella e i radicali abbiano trascinato fuori dall’incubo Tortora, è impossibile parlare di ‘lieto fine’. Per capirlo, basta mettere il naso nelle lettere dal carcere a Francesca (la «mia amata Cicciotta»). Operazione dolorosa. Necessaria. ‘Pedagogica’. Non si tratta di paura di perdere la memoria. O non solo di quello. Si tratta di esplorare l’animo umano, di capire il dolore, di viverlo sulla propria pelle anche se spettatori.

IL COLLAGE è devastante: «Sono diverso. Amaro, distrutto». «Uno schianto che non si può dire». «Mi tiene in piedi, solo, la volontà di dimostrare a quelli che amo di essere innocente, e di uscirne a testa alta». Oppure, il ritratto, con una cifra stilistica raffinata (Tortora aveva una scrittura essenziale e perciò bellissima così come bellissima la sua calligrafia), dell’ambiente carcerario. Tanti giovani. Giovani tatuati. Che urlano e bestemmiano invece di parlare. In quelle celle fetide, strette, impraticabili, che insultavano (e insultano) l’umana dignità. E poi, la dimensione intima (Francesca Scopelliti ha avuto tanto, tanto coraggio nel riunire in un libro queste lettere): «Cicciotta, ho un tremendo mal di testa. Fuori piove, e io come casalinga (debbo lavare, pulire, spazzare) mi sto rivelando una frana. Cicciotta, in gamba, mi raccomando». Il tentativo di mostrare serenità nella tragedia. La preoccupazione per la donna amatissima. «Sai – rammenta la vittima –, mi fa piacere ogni tanto leggere che al cinema danno ancora Tootsy o Gandhi, è come una conferma che io e te li abbiamo proprio visti, dunque era vero che esistevamo e che c’è stato un tempo che andavamo al cinema tenendoci per mano». La tristezza non si esibisce. Si descrive: «Sono diventato ancora più bianco, sai? Sembro papà Natale. Tra qualche giorno farò piazza pulita dei capelli (qui c’è un detenuto bravissimo col rasoio) e così sarò ancora più simile a quello che in fondo sono: un forzato». Parole che assumono un indiscutibile valore letterario (Tortora era lettore onnivoro): «Io uscirò cambiato. Stravolto. Come reduce da un cataclisma lunare. Verrò da un paese lontano, lontanissimo, e ti racconterò favole che ritenevo impossibili, e mi ascolterai come io avrei ascoltato Marco Polo». Sentimenti che annodano l’anima: «Non ho la forza di scrivere a mia madre. Qualcosa mi prende alla gola». Un «qualcosa» che annichilisce il lettore e lo prende alla gola, allo stomaco e alla testa. Ti chiedi: e se fosse successo a me?