Gli esercizi di Irene

C’era una volta un modo di dire: «Vale più un romanzo che cento saggi» (cito a braccio). Per un certo periodo della mia beata gioventù – perduta ma mai rimpianta (perdonate il cenno autobiografico, a una certa età succede) – andava assai di moda. Poi, è caduto in disuso e solo raramente fa capolino nelle […]

C’era una volta un modo di dire: «Vale più un romanzo che cento saggi» (cito a braccio). Per un certo periodo della mia beata gioventù – perduta ma mai rimpianta (perdonate il cenno autobiografico, a una certa età succede) – andava assai di moda. Poi, è caduto in disuso e solo raramente fa capolino nelle memorie di noi anziani. Ho cercato di trovare qualche altra definizione, non mi è riuscito. E quindi, per questo romanzo di Irene Chias (Esercizi di sevizia e seduzione, Mondadori, euro 17, disponibile anche l’e-book) non posso che riaffermare come quell’antica definizione sia più che mai appropriata.

In questi ultimi e abbastanza disgraziati tempi gran risalto hanno avuto episodi di «uomini che odiano le donne». Denunce, indignazioni di genere vario, lodevoli iniziative politiche e via dicendo. Tutto molto bello. Eppure in pochi si sono resi conto che il problema è culturale (in senso antropologico). La violenza infatti si esprime attraverso mille canali. Insomma, per dirla con la Chias, «da donna, non c’è bisogno di essere state aggredite per essere logorate. Basta la possibilità di esserlo, basta sentire la propria libertà limitata». Tante violazioni, tutti i giorni, cui assistiamo senza prestare attenzione o, peggio, non rendendoci conto della gravità delle parole. In tal senso, alcuni dialoghi dei protagonisti del romanzo della Chias, sono rivelatori. In ospedale, un infermiere e un suo amico:



– «Certo che hai avuto proprio culo capitare in questo reparto, eh Beppe? Che culo! Davvero, cazzo! Ne vedi di ogni, eh?»

– «Un giorno se riesco le faccio una foto, poveraccia! E poi ha un culo strepitoso», dice ancora l’infermiere

– «Le hanno lasciato quattro denti in bocca quei drittoni di Baggio»

– «Bene, sai come viene meglio?». E ridono.

Disgustosi. Come metterli a tacere? Come cambiare la loro capoccia malata? Chias, attraverso la protagonista Ignazia (milanese di adozione e siciliana di nascita: riferimento autobiografico) decide di vendicarsi – da qui il bellissimo titolo del libro – servendosi della letteratura: «Da qualche tempo sto maturando una consapevolezza riguardo alla mia missione esistenziale: riequilibrare la percezione di normalità dell’abuso sessuale fra i due generi. Con questo non intendo dire che stuprerò maschi a casaccio».

Inoltre, Ignazia sa di non avere «un profilo da giustiziera perché finora non ho avuto a che fare con stupratori o assassini comprovati, ma unicamente con coglioni maschilisti, o compiaciuti sciovinisti che disprezzano ogni forma di alterità, che parlano con compiacimento di mutilazioni genitali femminili salvo poi condannarle come barbarie ed ergersi a salvatori della dignità delle donne quando si tratta di dichiarare gli altri ‘inferiori’». E allora, ciò che guiderà le azioni di Ignazia non sarà di praticare violenze sessuali, ma si limiterà «a spaventare tali individui che forse semplicemente non hanno avuto la possibilità di riflettere, di abbandonare neanche temporaneamente l’idea che hanno di se stessi e di provare quindi empatia per gli altri. Mi limiterò a spaventarli immobilizzandoli e leggendo loro i miei esercizi letterari». Una spaventarice seriale, insomma. E quando saranno sufficientemente terrorizzati «insieme agli estrogeni, e questo è un regalo, inietterò loro anche dell’ossicitina, l’ormone dell’amore, il peptide prodotto dai nuclei ipotalamici e secreto della neuroiposfisi, la sostanza chimica dell’orgasmo e delle generosità».

Seguirà la messa in pratica di questa elegantissima forma di punizione verso molti maschi violenti. Sevizie forti, ma piene, e qui entro più dettagliatamente nell’analisi testuale della fatica della giovane scrittrice, di moltissima ironia e autoironia, elemento essenziale per capire la cifra stilistica del romanzo.

Si può ragionevolmente affermare che i ‘punti forti’ dell’opera – a parte quello centrale che riguarda ovviamente il tema delle donne violate e offese – sono i seguenti:

1. La scrittura

2. La descrizione dei personaggi

3. Gli accenti volutamente (e, appunto, ironicamente) pulp

4. La quasi certezza che, in fondo, qualcosa alla fine rimarrà (in tal senso mi pare decisiva la frase, posta a fine libro, “se non serbo rancore è per mancanza di spazio”)

5. La totale mancanza di luoghi comuni

Per la scrittura c’è poco da dire. Secca, scarna, da Codice Civile come avrebbe predicato un illustre scrittore che rispondeva al nome di Henri Beyle e dai più conosciuto come Stendhal. Provate a leggere ad alta voce queste righe:

«È un tipo curioso, m’interessa. Sembra un po’ lento, ma non è scemo. Forse è solo rilassato. In ogni caso mi ha lasciato una sensazione di calore e di pace che non sentivo da un po’».

Questo vuol dire saper scrivere. Il che, di questi tempi, non è poco vista la schiera di critici e scrittori che si vantano «d’esser barocchi» per mascherare una conoscenza approssimativa dell’italiano. Il brano riportato disegna la figura di Michele, maschio, ginecologo, presto fidanzato dolce e gentile di Ignazia che, con lui, costruirà un futuro “normale”. Quale? Non ve lo dico. Vi lascio a bocca asciutta così vi verrà “gana” di leggere il libro (esercizi di sadismo critico…).

Ma non perdiamoci nei dettagli. Dicevo della descrizione dei personaggi. Poche pennellate – espressione abusata anche questa, ma non me ne vengono altre – e subito sai chi hai di fronte. Di Michele si è detto. Occorre aggiungere che l’Autrice, per svelarci ancor più le paure e le speranze dell’uomo amato da Ignazia, introduce un divertente escamotage letterario: alla narrazione in prima persona della protagonista, la “spaventatrice seriale” Ignazia, alterna brevi intermezzi che, raccolti in un unico corpus, rappresentano il diario di Michele. La svolta nella relazione tra i due si ha a pagina 133: «Michele, salvifico. Vuole invitarmi a cena a casa sua, qui vicino. ‘Sto già cenando, amore’, gli dico. Ed è la prima volta che lo chiamo amore, e mi fa un certo effetto». Anche in questo caso la Chias mostra tutto il suo talento: poche parole rendono benissimo sentimenti e atmosfera.

Per gli altri protagonisti (escluso i ‘puniti’ da Ignazia) ecco le sorelle Panagia e Lucia. La prima allegramente sensuale e decisamente ‘svalvolata’, la seconda affettuosa piccolo-borghese. A proposito di Panagia (cfr. p.79 sgg) decisamente irresistibile l’avventura di sesso e amore che ha con il ‘vecchio’ conosciuto in una località turistica.

Gli accenti ‘pulp’ sono volutamente ed esageratamente ironici. Si prenda il caso di Piergiorgio, uno degli idioti da mettere in riga con gli ‘esercizi’: «Poi mi afferra i capelli per la nuca e mi ficca la lingua in bocca. I miei pensieri sono: mononucleosi, epatite B, afte, carie, virus di qualsivoglia definizione e fattezza». Accenti che assumono ovviamente toni più aspri nelle descrizioni delle punizioni dei violenti.

Ciò detto non pensiate a un romanzo senza speranza. Il finale lo conferma. Ma anche il filo rosso che attraversa tutte le pagine è sostanzialmente improntato all’ottimismo. Forse non ho capito nulla della Chias, ma l’impressione è che ci sia un’esortazione – mascherata da feconda ironia – a combattere, a non lasciarsi soffocare dalla violenza nascosta e perciò assai più pericolosa.

Dunque, un romanzo da leggere. Per pensare e divertirsi e, soprattutto, per imparare. In tal senso, si prenda la figura dell’amica Serena. Alle elementari Ignazia viene presa in giro a un corso di ginnastica artistica perché non ha le “scarpine adatte”. Lei ne soffre da morire. Ma il riscatto arriva con la reazione di Serena. Anche lei non le ha, ma risponde così a chi le prende in giro: «Che avete da ridere? Non ho fatto in tempo a comprare le scarpe, e non so neanche se farò in tempo la settimana prossima. Invece di uscire con la mamma, ho deciso di restare a casa a leggere Huckleberry Finn, che è la storia di un ragazzino che ha un padre alcolizzato che lo massacra di botte, un amico che è uno schiavo da liberare, e ben altri problemi rispetto ai vostri completini». Grandiosa. Il lettore prova un senso di appagamento.

I luoghi del romanzo sono essenzialmente milanesi. La memoria è siciliana. Chiarissimi riferimenti autobiografici anche se, forse (Irene è nata nella magica Erice e questo basta), qualche riga in più non avrebbe guastato. Ma lo scrivo solo per fare il maestrino in pagine che rivelano una grande verità. E cioè che se «donne come Serena e Daria, colte, affermate professionalmente, indipendenti, cascano in trappoloni del genere [cioè stare con uomini violenti ndr], cadute che nel nostro immaginario attribuiremmo a un’ignorante ragazza di campagna degli anni Cinquanta, allora siamo tutte a rischio abuso» (p. 207). Ecco, appunto. Per prendere coscienza di questo rischio la lettura attenta di questi ‘esercizi’ può essere assai utile.

Finalino. La Chias ha un problema. La sua prossima prova letteraria (speriamo prestissimo) dovrà essere all’altezza di quella descritta in queste noterelle. Ce la farà? No, così, lo scrivo per spargere un po’ d’ansia, ingrediente fondamentale per confermarsi scrittrice vera.

E qui mi fermo. Anche perché «io non credo niente. Scrivo e basta». E so per certo che la letteratura ci salverà…

Chias; Mondadori; letteratura; Sicilia; Milano; Ghidetti