Garibaldi e il Parlamento: il tema è dei più complessi. L’immagine, ancor’oggi dura a morire, è quella, stereotipata, di un uomo mai veramente invecchiato o, meglio, diventato saggio, che, uso ai campi di battaglia, poca dimestichezza poteva avere con quella che Pietro Nenni avrebbe definito la politique politiciénne, coi giochi di palazzo, con l’oratoria e lo scontro delle idee. Un po’ come l’idea, anch’essa assai diffusa, di un Garibaldi svelto di mano e di sciabola, ma sostanzialmente digiuno di buone e approfondite letture. Insomma, molta azione e poco pensiero. E’ stato il presidente dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano nonché preside della facoltà di Scienze della formazione a Perugia Romano Ugolini a demolire l’immagine di un ‘eroe’ molto cappa e spada e poco cervello nel 1982 col suo Garibaldi genesi di un mito. Così come occorre sfatare l’altra leggenda secondo cui il Nostro prese la via del mare ancora giovanissimo per “spirito d’avventura”, quando lo studio attento dei documenti fa capire quanto invece quella scelta fosse stata dettata dalle non floridissime condizioni economiche della famiglia.

Ma addentriamoci nel Palazzo in compagnia dell’eroe in camicia rossa. Anzi: del nostro “generale, agricoltore” come, con una punta di civetteria, il Nostro si firmò (era il 25 gennaio 1875) in quel consesso che il giornale satirico “Il Fischietto” chiamava – mi riferisco alla Camera dei deputati, ovviamente – “Monte Ciborio”, laddove “c’è sempre la tavola imbandita”.

Garibaldi, nel corso della sua vita, fu parlamentare molte volte, anche se svolse veramente la sua attività solamente per tre legislature. Tra le proposte che egli avanzò oltre alle più note come la risistemazione del Tevere con opere quasi faraoniche, ci sono:

– l’abolizione della pena di morte

– l’istituzione di una milizia popolare al posto dell’esercito permanente

– il suffragio universale

-il “far lavorare i preti” (non a caso un suo pdl si intitolava “il prete alla vanga”)

– far fondere le campane lasciando appena quelle indispensabili per trasformare in moneta metallica e eliminare quel “sudiciume” del cartaceo come diceva lui

– legiferare contro il lavoro minorile

Ovviamente, non tutti i suoi mandati parlamentari furono “italiani” nel senso stretto del termine, vale a dire dopo il 1861.

La prima volta fu nel Parlamento subalpino: viene eletto deputato nel collegio di Cicagna (Chiavari) il 30 settembre 1848. La seconda all’Assemblea costituente romana, deputato di Macerata il 21 gennaio 1849. La terza torna nel Parlamento subalpino a Stradella (vicino a Pavia) il 10 agosto 1859. La quarta: tre collegi, 29 marzo 1860 (Varese, ancora Stradella, Nizza Marittima, opta per quest’ultima). E’ la celebre legislatura, la settima, nella quale si dimette il 23 aprile per la cessione di Nizza alla Francia. Verrà rieletto deputato nelle elezioni suppletive del 10 maggio 1860, nel IV collegio di Milano, e in quelle del 5 luglio 1860, nel collegio di Corniglio (Parma). La quinta volta è la prima nel Parlamento italiano, il 3 febbraio 1861, nel primo collegio di Napoli. Si dimette nel 1863 ancora per la questione nizzarda. E’ rieletto, il 31 gennaio del ’64, a Corleto (Potenza), Napoli I e Casalmaggiore (Cremona). La sesta volta, nel 1865, ad Andria (Bari) e Lendinara (Rovigo) e quindi, nel 1867 a Napoli X, ancora Andria e Ozieri (Sassari). Si dimette e viene rieletto sempre a Ozieri. Per Montecitorio registriamo le elezioni del 15 novembre 1874, del 12 novembre 1876, del 23 maggio 1880.

Da non dimenticare che si dimette per motivi di salute il 15 novembre 1880. Le dimissioni vengono respinte. Quindi, Garibaldi muore deputato.

Un’altra cosa da non scordare è che il Nostro fu eletto deputato all’Assemblea nazionale francese l’8 febbraio 1871 e che si dimise il 13 febbraio. Quattro i collegi: Senna, Algeria, Costa d’Oro e Alpi marittime. Un’elezione che segue la mitica campagna dei Vosgi (i tedeschi persero due sole bandiere, una per mano dei garibaldini) e che ha un altissimo valore simbolico.

Peraltro, occorre mettere in rilievo come Garibaldi abbia sempre diffidato della politica. Non solo e non tanto per un’insofferenza di fondo alle procedure parlamentari (problema peraltro ancor’oggi assai diffuso), non solo e non tanto per i barocchismi e i bizantinismi della politica italiana, quanto soprattutto (è la famosa frase dell’Italia che non può farsi curare da “500 dottori”) perché l’Eroe dei Due Mondi, chiaramente orientato in senso radicalsocialista (ricordiamoci la sua celebre frase “l’Internazionale è il Sol dell’Avvenire ma conviene non esagerare”) capisce immediatamente quanto i bisogni popolari sarebbero stati rappresentati adeguatamente senza il suffragio universale. Ironia della sorte o della storia, fu proprio nel 1882, nell’anno della sua morte, che ci fu la prima, vera riforma elettorale della Sinistra con abbassamento dell’età di voto a 21 anni (prima era 25), con la riduzione del livello di censo, con liste elettorali permanenti (in sostanza, chi aveva diritto di voto non lo avrebbe più perduto). Intendiamoci: si arrivava alla cifra di 2 milioni di elettori circa, vale a dire il 6,9 per cento della popolazione italiana, non cifre “di massa”, ma certamente meglio di quell’1,9-2,2 per cento che aveva votato nel nostro Paese tra il 1848 e il 1880. La diffidenza di Garibaldi non va confusa con un qualunquistico anti-parlamentarismo, però. In una lettera (ed è solamente uno dei moltissimi esempi) al “bardo della democrazia” Felice Cavallotti, il Generale scrive in data 14 ottobre 1873 che conviene trasferire l’azione politica in Parlamento.

Francesco Ghidetti

PS Ogni riferimento a cose o persone (insomma: con l’attuale, disgustoso e dannoso populismo) è puramente casuale