Castro nazionale

Nella nostra piccola patria siamo alle solite. Chi esulta per la morte del dittatore. Chi ne loda il profilo del rivoluzionario di professione. Atteggiamenti della nostra provincialotta Italietta, incapace di aprire lo sguardo verso la Storia. Perché di questo stiamo parlando. Di un protagonista assoluto, di un capo di Stato far i più evocativi, di […]

Nella nostra piccola patria siamo alle solite. Chi esulta per la morte del dittatore. Chi ne loda il profilo del rivoluzionario di professione. Atteggiamenti della nostra provincialotta Italietta, incapace di aprire lo sguardo verso la Storia. Perché di questo stiamo parlando. Di un protagonista assoluto, di un capo di Stato far i più evocativi, di un uomo che è morto a 90 anni governando Cuba per 49 anni e 55 giorni. La bandiera da lui sventolata era quella comunista, una bandiera non immacolata. Ma, in realtà, Castro era tutt’altro che un marxista-leninista come qualcuno si ostina a scrivere e dire. No, Fidel, nato a Biran, parte orientale di Cuba il 13 agosto del 1926, era il rappresentante di una certa idea di Patria. La Patria armata e comunista. Solo così si spiega la sua ossessione per gli Stati Uniti e la Cia. Una fissazione? No, un’abile mossa tattica ripetuta sino alla nausea nei suoi chilometri e defatiganti discorsi, per tenere unito il popolo. I suoi 11 e passa milioni di cubani. Che, in cambio, non dovevano azzardarsi a dire la loro, pena la repressione dura e spietata. Il suo modello vero era José Martí, lo scrittore della media borghesia urbana cubana che, nell’Ottocento (morì nel 1895), si batté, rimanendone ucciso, contro il colonialismo spagnolo. Ma usò Martí in maniera strumentale, perché l’eroe ottocentesco aveva in mente una rivoluzione sì, ma nazionale e un’idea progressiva della democrazia.
Del resto, un frase ci pare estremamente illuminante per capire la cifra stilistica del lìder: «Quali sono i diritti degli intellettuali? Dentro la rivoluzione tutto, contro la rivoluzione nessuno». Tutto dentro un recinto stretto. Soffocante, verrebbe da dire. E che Castro fosse sostanzialmente un convinto assertore dell’idea di Nazione è dimostrato anche dal suo rapporto con il Che, su cui molto si è parlato, su cui poco si è studiato per davvero: anche perché montagne di documenti sono ancora secretati un po’ in tutte le parti del mondo. Il dottor Ernesto Guevara, argentino, dopo la cacciata del dittatore Fulgencio Batista (che aveva ridotto Cuba a una enorme sala giochi con annesso bordello a cielo aperto) in quell’8 gennaio del 1959, voleva esportare la Revolucion. Castro non lo aiutò veramente perché aveva capito benissimo che la Cuba comunista doveva avere solide impalcature fatte di repressione del dissenso. Il Che non lo seguì e, nel 1967, morì in Bolivia, solo, tradito dai più. Fidel, invece, rimase a Cuba e lì costruì la sua idea di Stato totalitario. Con una caratteristica, anche questa usata come formidabile arma di propaganda. Mentre a Cuba e nel resto del mondo la famosa immagine del Che è diventata oggetto di merchandising (bandiere, spille, magliette, adesivi…), la sua immagine è difficile trovarla come oggetto di culto. I magneti del Che li trovi anche negli autogrill. I magneti di Fidel a mala pena alle feste del Partito della Rifondazione comunista. Una scelta anch’essa precisa, studiata. Come studiata è la scelta di far trapelare pochissimo della sua vita privata. Dalla compagna Dalia Soto del Valle ha avuto cinque figli. Più altri tre da altre tre donne. Almeno così si legge e così narrano. Si sa della sua passione per la letteratura, anche italiana. Una volta teneva sul comodino «Los amigos», che altro non era che «Amici» del grandissimo scrittore di Colle Val d’Elsa Romano Bilenchi (per inciso tutt’altro che castrista…). Altre volte si fece consigliare da… persone in vista come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che cosa leggere in tema di rapporto tra religione e società. Già, i pontefici. Impossibile dimenticare quel 1998, quando Giovanni Paolo II scende dalla scaletta dell’aereo, Fidel gli va incontro ed entrambi guardano l’orologio. Quasi a certificare il momento storico del faccia  a faccia.
Incontri ad altissimo livello che però non servirono a cambiare le cose, in termini di pratica democratica, nell’isola bellissima. I numeri ci possono aiutare a capire. Anche se si tratta di numeri diversi e tutt’altro che sicuri. Certamente, 1,2 milioni di cubani sono fuggiti dal regime castrista, stabilendosi nella vicina Florida e organizzando associazioni di esuli decisamente orientate a destra se non all’estrema destra. Per Amnesty International, dal 1959 all’87 sono state condannate a morte 230 persone (ma ci sembra cifra un po’ al ribasso). Per lo storico ed ex diplomatico Hugh Thomas – autore di una bellissima Storia di Cuba tradotta in Italia da Einaudi – dal 1959 al 1970 vi furono 5mila esecuzioni. Numeri diversi, che però danno l’idea della mancanza di libertà a Cuba. E, a proposito di numeri, è interessante notare come i tentativi, più o meno veri, alcuni certamente molto, molto pittoreschi di uccidere Castro furono 638.
La domanda che sorge spontanea adesso è: chi sarà l’erede politico di Fidel? La domanda può avere una sola risposta,. a meno di sorprese: nessuno. L’unico che, pur con accenti diversi e modalità confuse, poteva aspirare al ruolo di Castro, poteva essere Hugo Chàvez. Il quale, però, è stato sconfitto da un orrendo male il 5 marzo 2013. Castro lo chiamava «il mio pupillo». Il leader venezuelano lo sosteneva col petrolio, andava a Cuba per curarsi (il sistema sanitario e l’istruzione erano i fiori all’occhiello di Fidel), Castro lo rimproverava. Raccontano che, una volta, Castro pretese di vedere le analisi del sangue di Hugo: «Fegato grasso e colesterolo altissimo! Non bere e mangia meglio», lo rimproverò puntandogli contro un dito. Narrano che Chàvez si mise a dieta. Ferrea. Per una decina di giorni…
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