Bixio. Il garibaldino che sbagliò colore della camicia…

Nella mitologia greca Bronte è un ciclope (ha quindi un occhio solo) che forgia fulmini per Zeus. Ha forza sovrumana e non è molto intelligente. E, guarda un po’, Bronte è un paese siciliano la cui ducea regalata dal re di Napoli Ferdinando IV all’ammiraglio Horatio Nelson per aver posto fine alla gloriosa Repubblica partenopea […]

Nella mitologia greca Bronte è un ciclope (ha quindi un occhio solo) che forgia fulmini per Zeus. Ha forza sovrumana e non è molto intelligente. E, guarda un po’, Bronte è un paese siciliano la cui ducea regalata dal re di Napoli Ferdinando IV all’ammiraglio Horatio Nelson per aver posto fine alla gloriosa Repubblica partenopea nel 1799. Nelson, che ha un solo occhio (ma, forse, un’intelligenza superiore al ciclope). E ancora: avete presente le sorelle Emily, Charlotte e Anne Bronte? Il cognome deriva dall’ammirazione sconfinata che il loro padre aveva per Nelson. Si chiamava Patrick Brunty e si fece cambiare il cognome in onore dell’ammiraglio, padrone, appunto, di quella ducea siciliana.

Abbondanti le curiosità che si trovano nell’ultima fatica di Lucy Riall pubblicata da Laterza un po’ di tempo fa (scusate il ritardo…). Mi lascia assai perplesso il titolo dell’opera: La rivolta. Bronte 1860. Insomma, mi aspettavo un saggio di storia garibaldina – la feroce repressione del 1860 operata da Nino Bixio per ‘ripristinare la legalità’ in piena spedizione dei Mille – e mi son trovato di fronte a pagine di storia di un paese della Sicilia.

Il libro è ambizioso e può essere riassunto in una frase di Sir Henry Elliot del 12 maggio 1860: «Nel cuore di ogni siciliano, in ogni parte dell’isola, si annida uno spirito di ribellione». Eccola, dunque, la storia di Bronte. Una storia di sangue e di rivolte, una storia resa celebre da Giovanni Verga con la novella Libertà. Una storia che vede Bixio e i soldati garibaldini arrivare in paese il 6 agosto. Bixio, il tremendo Bixio. Duro, violento, eppure capace di scrivere dolcissime lettere alla moglie. Lui non voleva incarichi di repressione, ma doveva farlo. Colpevole? Innocente? E Garibaldi? Perché questa furia repressiva in chi stava liberando dalla feroce (e insulsa, checché ne pensi monsieur Grillo) dinastia dei Borboni? Moltissime le risposte possibili. Riall non prende posizione. Ma afferma che la colpa di quel che avvenne non fu di Bixio né degli inglesi. Vulgata vuole che Garibaldi avesse ordinato la repressione per difendere la ducea della famiglia Nelson e, più in generale, i corposi interessi inglesi in Sicilia. Il quadro, in realtà, è più complesso. In quel 1860 erano vivi gli incubi del 1820 e del 1848, quando la mancanza di una solida guida politica aveva fatto naufragare le rivoluzioni. Non solo: si temeva che i disordini favorissero le forze della reazione. Resta comunque l’ingiustizia. L’ingiustizia di aver soffocato nel sangue le aspirazioni dei poveri contadini. Poveri e feroci. Come quell’uomo che «infilò un coltello nel corpo di Cannata (un famoso notaio di Bronte) e poi leccò il sangue sulla lama». Oppure tal Caino che avrebbe tagliato il fegato di uno sventurato e se lo sarebbe mangiato con un pezzo di pane. Una Sicilia ‘nera’, dunque, cui però ci piace contrapporre quanto scrive la viaggiatrice inglese Emily Lowe nel 1859: «Isola che tutto possiede, e niente gode; dove cornucopie rovesciano squallore su una terra la quale, sotto i suoi governanti attuali, è come un gioiello d’oro sul grugno di una maiale».

Finalino doverso: dopo il 1860 («finì senza gloria», scrisse amaramente il celebre giornalista e scrittore garibaldino Giuseppe Bandi) Garibaldi e Bixio non ebbero rapporti buoni. Addirittura, quando Nino mori a Sumatra nel 1873, il Generale non spese una parola per lui. E, chissà, nemmeno una lacrima versò.

Francesco Ghidetti

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