Bilanci

LA VOCE di Matteo Richetti ha un ritmo pacato. È stanco, ma felice, per usare un’espressione dei nostri nonni. Il duro lavoro parlamentare su articolo 49 e forma-partito – nodo mai sciolto sin dalla nascita della Costituzione – è finalmente finito. Senza le luci della ribalta eppure con la certezza che, ora, le regole ci […]

LA VOCE di Matteo Richetti ha un ritmo pacato. È stanco, ma felice, per usare un’espressione dei nostri nonni. Il duro lavoro parlamentare su articolo 49 e forma-partito – nodo mai sciolto sin dalla nascita della Costituzione – è finalmente finito. Senza le luci della ribalta eppure con la certezza che, ora, le regole ci sono. E favoriscono la partecipazione. Ciò non toglie che Richetti da Sassuolo, classe 1974, renziano della prima ora senza ortodossie, non mostri preoccupazione per i risultati di domenica, per i ballottaggi, per il partito.

Richetti, tutta colpa di Renzi?

(trattiene a stento una risata che poi si trasforma in un lungo sospiro) «Beh, dire che Matteo è il problema del Pd è ridicolo. Il dato vero è che la responsabilità del gruppo dirigente deve allargarsi. Dev’essere diffusa. Dobbiamo aiutare la leadership del segretario a rafforzarsi».

Tutti lì ad aspettare il ‘verbo secondo Matteo’…

«Basta attendere che, dall’alto, ci venga dettata la linea. Prendiamoci le nostre responsabilità. O andiamo poco avanti».

Come domenica…

«Possiamo ancora ribaltare tantissime situazioni difficili».

Dica la verità: a Roma non vi aspettavate la performance di Bobo Giachetti…

«Fino a poche settimane fa, molti colleghi in Parlamento davano Roma per persa. Con un terribile scontro tra grillini e Fratelli d’Italia. Roberto ha fatto un miracolo. Adesso sono più ottimista. Non sarà facile, ma opportunità per la rimonta ci sono. Eccome».

Ve le state dando sode coi grillini.

«No, abbia pazienza. Il dibattito via twitter a forza di male parole lo lascio volentieri ai Cinque Stelle. Roba loro. Il ring in politica non mi è mai piaciuto. Vediamo di riprendere, invece, il dibattito e il confronto sulle idee con le parti più vitali del Paese».

Ci vorrebbe una maggiore presenza sul territorio.

«Per questo ho lavorato così alacremente alla riforma dei partiti e a dare il senso a una rappresentanza effettiva. La comunicazione, la tv, i social network sono importanti. Però cerchiamo di ritrovare, oltre a un’organizzazione più efficiente, un senso della comunità, di appartenenza. Che è quello che abbiamo lasciato per strada in queste elezioni».

Però è opinione diffusa che il Pd sia rimasto l’ultimo partito ‘vero’, a parte la Lega in alcune zone del Paese.

«Opinione verissima. Ma anche preoccupante. Un sistema che si regge su un solo perno non va bene. La nostra azione politica deve muoversi all’interno di un recinto di regole condivise e con interlocutori stabili. Se no, anche noi, e i primi segnali già ci sono, perdiamo consensi. E, lo ripeterò sino alla noia, il senso di appartenenza».

Ancora dispiaciuto per l’uscita di Stefano Fassina?

«Ovvio, ma non è problema di personale politico. Mi preoccupa assai più la fuga di parte dell’elettorato di sinistra. Cui dico: il Pd è un partito di sinistra. Non credete a chi dice il contrario. Dite la vostra, arrabbiatevi, ma aiutate il partito a crescere… Anche perché dopo le elezioni non è che si salti subito al referendum. Scenario da incubo: e se a fine giugno la Gran Bretagna esce dall’Europa?».

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