E allora parliamo di Roma. Meglio: cerchiamo di capire che cosa succede, politicamente, nella nostra amatissima e costosissima Capitale.

Il Pd mostra tutta la sua inadeguatezza. Alle urne per le primarie sono andati, a dir tanto, in 35 mila. I municipi (leggasi: quartieri) sono quindici. La media è di 2mila elettori. E 2 per 15, quanto fa? Ciò detto il quadro è chiaro. Abbiamo un Pd che è tutto fuorché un partito. Il più a sinistra è Roberto Morassut. Integerrimo. Ama la sua città come nessuno mai. Ma, di fatto, ha avallato tutte le scelte renziane. Poi, c’è Roberto Giachetti, libertario e garantista, già nella giunta Rutelli, gran tifoso della Roma (il che non è bellissimo…) eppure senza un pedigree tale da permettergli di governare la Capitale d’Italia. Insomma, non è Ernesto Nathan.

A destra, vien da ridere o da piangere a seconda di come ci si sente psicologicamente. La destra ha sempre avuto amministratori locali scarsi, è noto. Però a Roma può contare su una tradizione, quella missina (e potete capire quanto mi faccia piacere scriverlo!) che per decenni ha fatto politica quartiere per quartiere, circoscrizione per circoscrizione, ascoltando la gente e cercando (spesso invano) di risolvere i problemi legati al territorio. (Constatazione che, ovvio, non riguarda la catastrofe di Alemanno). La soluzione migliore, per loro, sarebbe stata Giorgia Meloni. Di fatto, si è poi scatenato un buridone che vede in campo Bertolaso (fortissimamente voluto da Berlusconi per la solita menata della “società civile” con cui ci ha intrattenuto per anni e anni e anni), la Pivetti (risate fragorose), Alfio Marchini (nulla dico per carità di patria). Quindi, l’unico credibile resta Francesco Storace che, al di là del folklore sulla chiusura dei ristoranti indiani, è colui che meglio conosce la realtà capitolina. Che poi possa vincere è altro discorso. Ma, per lo meno, tiene alta la bandiera.

Insomma, il vero problema resta il Pd. Indeciso a tutto e incapace di fornire soluzione dopo le figure non proprio edificanti degli ultimi tempi. Spunta l’ipotesi Bray. Massimo Bray, che in dieci mesi da ministro della cultura, ha lavorato benissimo. La sua candidatura sarebbe il frutto dell’accordo tra un ex politico, Massimo D’Alema (assieme a Craxi il più “sprecato” dell’Italia repubblicana: peccato), e Goffredo Bettini, già Re di Roma ora fattosi di nebbia. Candidatura autorevole, certo. Ma c’è un problema: chi lo conosce?  E siamo già a marzo. E ancora nessuno si decide a “presentarlo”. Oltretutto, l’apparato capitolino piddino non lo può soffrire perché dalemiano. A sinistra, Sel, come sovente accade, è divisissima. E una parte consistente non vede di buon occhio la candidatura di Stefano Fassina (non sarà un leader, ma di economia ne capisce essendo antiliberista).

Un quadro desolante. Con una destra che non fa il suo mestiere perché non è mai stata capace di capire che essere moderati e conservatori non vuol dire essere reazionari e una sinistra che mai ha veramente imboccato la via maestra del riformismo libertario. Su tutto, incombe il vero pericolo: la vittoria degli inutili e dannosi grillini. I quali porteranno in Campidoglio la Raggi e, chissà, la maggioranza assoluta. Roba da brividi. Anche qui, ringraziamo Pd e soci: criminalizzano la candidata di Casaleggio “svelando” che ha lavorato nello studio di Cesare Previti. Sai te che colpa. Se tutti dovessimo esibire il nostro dna, se tutti dovessimo dire dove abbiamo cominciato staremmo freschi. La solita ipocrisia della politica. La verità è che in caso di ballottaggio, la grillina piglierebbe i voti di quei signori che, quantomeno negli ultimi vent’anni, ci hanno promesso meraviglie. Portandoci alla catastrofe attuale. E che insistono, difendendo l’Italia travestiti da legionari di Cristo. Cioè da preti. L’ideale sarebbe un bel ritorno di Giuseppe Garibaldi. Che a preti e soci ne ha fatte vedere di tutti i colori. Temo, però, sia impresa difficile…