LITIGI, furibondi odi personali, antiche amicizie che si spezzano. Storie personali e collettive che si chiudono. Sì, ora è tutto diverso dal passato, dalla famosa scissione di Livorno del 1921 (quando nacque il Partito comunista d’Italia di Bordiga, Gramsci e Togliatti) o dalla fine del Pci e la nascita di Pds e Rifondazione nel 1991. Ora il gioco è più drammatico perché attinente alla sfera intima, al senso dell’abbandono e (vedi il caso di Stefano Fassina ieri) dell’isolamento. E quindi il discorso diventa più psicopolitico, usare il termine ‘scissione’ diventa improprio. Insomma, lo spettacolo cui assistiamo oggi ha una cifra stilistica diversa. Flash del presente e del recente passato (tralasciamo quindi la rottura ottocentesca tra Garibaldi e Mazzini) esemplificano bene quanto sosteniamo. Ve lo ricordate quel drammatico 22 aprile 2010? Si svolge un’affollatissima direzione del Pdl. Berlusconi e Fini litigano di brutto. Finché l’ex delfino di Giorgio Almirante si alza, punta il dito, le vene del collo ingrossate e urla all’ex amico Silvio: «Che fai, mi cacci?» (nella foto). Momento dolorosissimo per il ‘popolo’ del centrodestra.

In tempi più recenti, per la precisione all’inizio dell’anno (4 gennaio) Stefano Fassina – che domenica si è preso a male parole con Renzi – molla la poltrona di viceministro dell’Economia dopo che il suo premier e leader di partito ha risposto così a un cronista: «Fassina chi?». Tanti gli esempi che vengono in mente. Come quella volta (nel 2007) che Fabio Mussi disse a un terreo Massimo D’Alema a Firenze in occasione della fondazione del Pd: «Tutto molto buono, ma io mi fermo qui». Della serie: fatevi ’sto partito, ma lasciatemi in pace.
CHISSÀ, forse ora le scissioni personali si sentono di più per un dato. Oggettivo. E cioè che stare insieme è complicato specie se la leadership è forte. Specie se i partiti (ahinoi) non esistono più, travolti dal malaffare, dagli scandali e, diciamolo, dalla scarsità di idee. Perché quell’urlo di Fassina al suo segretario implica una scissione già di per sé: «Non ti permettooooooo…». Proprio in risposta al «non ci piegheremo ai diktat della minoranza». Ti scindi formalmente oppure no. Ma il succo della questione non cambia. Le scissioni sono spesso interiori. Come quando Martelli, nel 1993, si staccò brutalmente da Craxi nel mirino dei pm milanesi affermando che occorreva ridare «l’onore» al Partito socialista. Certo, ci si gioca il futuro (Fini insegna), ma sempre meglio che convivere come separati in casa. Troppo difficile. Troppo faticoso. Perlomeno in partiti siffatti.
«Partiti? – sospira un ex deputato di stretta osservanza dalemiana –. Chiamiamoli piuttosto ‘comitati elettorali’, va’…».