ROSSA la sciarpa di don Gallo appoggiata sulla bara. Rosse le bandiere: Rifondazione, Sel, Syriza, ma soprattutto i vessilli originali dei comunisti con falce, martello, stella e la sigla ‘Pci’. Rosse le maglie e le camicie della gente in piazza Montecitorio. Rossi i canti: da Bandiera rossa a l’Internazionale. E non poteva essere diversamente, del resto.

SI CELEBRAVA, in una Roma insolitamente appicicaticcia con nuvolaglia opprimente e qualche timido raggio di sole, l’addio a Pietro Ingrao, l’antico leader comunista morto domenica a cent’anni. Un’occasione forse irripetibile. Una specie di lezione di storia del costume in tempi di politica liquida, di comitati elettorali, di partiti che vanno e vengono, si dividono, litigano, inventano nomi improbabili, stringono alleanze inimmaginabili. La perfida battuta di un giornale percorre in lungo e in largo la folla. La fa ondeggiare. Alle lacrime si sostituisce un sorriso fugace e amaro: «Per risparmiare tempo, la salma di Pietro Ingrao verrà sepolta già rivoltata». Segno che i militanti (meglio: gli ex militanti) comprendono come, con la morte di Ingrao, un secolo, il Novecento, s’è davvero chiuso. Il secolo della partecipazione di massa. Delle lotte in fabbrica (e infatti accanto alla sciarpa di don Gallo c’è un casco delle Acciaierie di Terni: Ingrao fu eletto in Umbria per oltre trent’anni) e delle occupazioni delle terre.

MA, inevitabile, il cannocchiale del cronista indaga i volti dei presenti, cerca di trovare chi non c’è, fissa la sua attenzione sulla mimica facciale. La vecchia e cara ‘cartina di tornasole’. No, il premier Matteo Renzi non intona Bella Ciao. Lo fa però la responsabile delle Riforme Maria Elena Boschi (quasi un sussurro) e Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione di nero vestite, i visi pallidi. Canta Fausto Bertinotti (già presidente della Camera, il genio che ha ridotto in macerie Rifondazione comunista, il partito cui l’oramai anziano Ingrao si iscrisse), cantano i presidenti della Camere Laura Boldrini e Pietro Grasso. Muto Maurizio Gasparri, ma non avevamo dubbi. Da una parte Pier Luigi Bersani e il custode delle memorie comuniste, Ugo Sposetti (viso terreo: a stento, anche un ‘duro’ come lui, trattiene le lacrime). E poi Maurizio Landini, Susanna Camusso, Anna Finocchiaro, Luca Lotti.

MA PIÙ del coro contano le parole. Come quelle di Alfredo Reichlin, già dirigente del Pci, che sostiene: «La sinistra è parola antica di cui si sono persi oggi molti significati». Frase più o meno condivisibile che un «compagno» commenta così: «Detto dall’ideologo del Pd è davvero paradossale» (in verità adopera parole leggermente più feroci, ma son particolari). Più letterarie – e certamente sarebbero piaciute a Ingrao che di letteratura se ne intendeva forse più che di politica – quelle del grande regista Ettore Scola: «Ingrao aveva rinunciato a essere poeta, cineasta e scrittore. Aveva scelto un’altra poesia. La politica. E oggi siamo allegri per questa bella giornata di festa».
Le parole, dunque. Le parole di un intellettuale che mettono ben a fuoco il clima di ieri. Magari la parola «festa» sarà troppo, ma di sicuro il clima non è nemmeno lontanamente paragonabile ai funerali degli altri leader comunisti, dove il senso di perdita (da Togliatti ad Amendola a Pajetta a Berlinguer) era palpabile, fisico. O meglio: si perdeva il leader. Ieri, invece, è sembrato che si perdesse un’epoca, probabilmente irripetibile. Per questo motivo più che di «imbarazzo» della autorità (Renzi su tutti) crediamo si possa ragionevolmente parlare di presa di coscienza di un tempo che non c’è più. Come sostengono alcuni cittadini: «Con questi funerali di Stato lo stanno imbalsamando». Oppure «Il partito non c’è più, purtroppo. E non c’è più nulla nemmeno a sinistra». O, chissà, c’è una sinistra che ha le bandiere del Pd. Tricolori. E assenti dalla piazza.