“La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”, cantava il Principe Francesco De Gregori negli anni Ottanta. Reduci dall’ultima partita casalinga della Virtus Granarolo, con annessa celebrazione per i trent’anni dello scudetto della stella, quel motivo è tornato, prepotentemente, nelle nostre orecchie. “La storia siamo noi” stride con lo spettacolo visto ieri.  Non tanto per il risultato finale quanto, piuttosto, per l’atteggiamento, l’approccio di  un gruppo che solleva, quantomeno, un interrogativo.

Peccato perché una squadra composta in gran parte da atleti statunitensi dovrebbe far tesoro di quello che accade nella loro patria. Negli States, dove ogni partita di basket comincia con l’inno americano, con l’esposizione della bandiera, hanno un rispetto sacro della loro storia. Negli States, sia nella Nba sia nella Ncaa, onorano i “padri fondatori”, omaggiano le stelle e le star del passato. Ecco, ieri, all’Unipol Arena, c’era una bella storia da rivivere. La storia di una Virtus capace di vincere due volte a Milano, nel palazzone che oggi non c’è più. Una Granarolo così abile da cucirsi sul petto lo scudetto della stella.

Così ieri, all’Unipol Arena, c’era il capitano di allora, Renato Villalta, oggi presidente. Un Villalta che ha voluto, al suo fianco, i compagni di un tempo. E alla chiamata alle armi di Renato hanno risposto tutti, o quasi. Ettore Messina, oggi allenatore del Cska e domani, forse, head coach Nba, ha lasciato Mosca perché Bologna e la Virtus fanno parte del suo dna. Albertone Bucci non sta benissimo: non importa. L’ottimismo e la carica del tecnico di allora sono qualcosa del quale tutti, noi compresi, dovremmo fare tesoro. E poi Marco Bonamico, Roberto Brunamonti, Augusto Binelli, Alessandro Daniele, Matteo Lanza, Gianluca Trisciani, Maurizio Brunelli. Marco Balboni, all’epoca masseur, il dottor Roberto Rimondini, Achille Canna, in quegli anni direttore sportivo, dopo essere stato giocatore, presidente, dirigente a tutto tondo.

Ecco, gli eroi di ieri, meritavano, oltre che l’applauso dell’Unipol Arena, l’omaggio dei giocatori di oggi. Omaggio non significa vittoria, significa, semplicemente, sbucciarsi le ginocchia sul campo, perché capisci, comprendi  – ma le ginocchia, per come intendiamo noi lo sport, uno se le dovrebbe sbucciare sempre – che sei davanti alla storia. Alle leggende.

Ma più i minuti passavano, sul campo, e più sbiadivano i contorni di quelli che stavano giocando. Nella testa di tutti i presenti, solo gli eroi di allora. Già, parafrasando De Gregori, “La storia sono loro”. Dove loro sono i ragazzi del 1984. E se qualcuno di oggi si dovesse sentire escluso – scommettiamo che tra trent’anni faticheremo a ricordare i volti degli atleti attuali – pazienza. Ce ne faremo una ragione. Restiamo fedeli a una massima: chi non conosce la storia, non ha futuro. E nemmeno un presente.