Belinelli, we have a dream

Marco Belinelli ha 28 anni e un sogno. Non ha avuto paura di raccontare quale sia il suo sogno in barba alla scaramanzia, alla cabala, alla prudenza che, di solito, accompagna qualsiasi finale Nba. Non è uno sbruffone, Marco, ma, al contrario, un ragazzo con la testa sulle spalle. Con la testa dura, perché in […]

Marco Belinelli ha 28 anni e un sogno. Non ha avuto paura di raccontare quale sia il suo sogno in barba alla scaramanzia, alla cabala, alla prudenza che, di solito, accompagna qualsiasi finale Nba. Non è uno sbruffone, Marco, ma, al contrario, un ragazzo con la testa sulle spalle. Con la testa dura, perché in tutti questi anni è stato capace di resistere. Certo, ha avuto l’apporto della famiglia, di mamma Iole e di papà Daniele, dei fratelli Enrico e Umberto e di Elisa Guarnieri che, da alcuni anni, gli cura immagine e pubbliche relazioni. Ma la realtà è che Marco va ammirato, una volta di più, perché in campo era solo contro tutti. Contro gli statunitensi che sono gelosi delle loro tradizioni, contro gli stereotipi sugli italiani (spaghetti e mandolino), contro un’opinione pubblica che ha sempre coccolato di più (solo perché sono più alti?) Andrea Bargnani e Danilo Gallinari.

Solo contro tutti: Marco ha accettato la sfida. Qualche volta ha vinto, qualche volta ha perso. Ma quel che più conta è che, da solo, sempre, è riuscito a rialzarsi, a riprendere la sua sfida con il mondo Nba. A provare a scrivere nuove pagine di una favola alla quale, a questo punto, manca solo il lieto fine. Marco ha un sogno e forse non lo sa. Ma da stanotte, il suo sogno, si unirà a quello di migliaia di italiani che magari hanno passato la cinquantina e che sono cresciuti, prima ancora che arrivassero la tivù e le dirette d’oltre oceano, divorando una rivista che si chiamava Giganti del Basket. Non c’erano filmati, ma c’erano le foto e, soprattutto, dei “romanzieri” più che dei giornalisti. Ci raccontavano di quanto fosse mostruosamente alto Kareem Abdul Jabbar, delle ginocchio di Bill Walton (difficile che oltre oceano lo abbiano soprannominato il Tombolato di Portland), di quanto Julius Erving fosse capace di vincere la legge di gravità e, con le sue mani immense, in grado di realizzare canestri da qualsiasi posizione. Poi Larry Bird e Magic Johnson, le prime telecronache del maestro Dan Peterson. Quando dietro ogni giocatore, ogni allenatore, c’era una storia, un racconto, una favola che fanno parte dei ricordi di chi, come noi, ha superato i cinquant’anni.

Marco Belinelli ha un sogno, ma alle sue spalle – Beli lo deve sapere – ci sono generazioni di italiani che hanno sognato, con i poster in cameretta, formato quasi naturale, di Doctor J e di Magic Johnson, di Pistol “Pete” Maravich e Nate Archibald. Marco Belinelli è stato bravo e determinato perché, a testa bassa, con coraggio e ostinazione tipiche della cultura padana (per carità, nessuna implicazione leghista in questo aggettivo), è riuscito arrivare lì, a un passo dal trasformare il sogno in realtà.

Lo ha fatto da solo, Marco, perché è un ragazzo che, al talento regalatogli da madre natura, ha saputo abbinare l’ostinazione, la dedizione al lavoro e al sacrificio che, evidentemente, mamma Iole e papà Daniele sono stati capaci di insegnargli, tutti i giorni, prima che il “Cinno” lasciasse Bologna e spiccasse il volo, per crearsi uno spazio negli Stati Uniti d’America.

Lo ha fatto da solo, Marco. Ma da stanotte, ne siamo sicuri, sarà spinto dalle generazioni che hanno sognato con Doctor J e Magic, Jordan e Bird. In quegli anni si parlava soprattutto di Lakers, Celtics, 76ers, Bulls, magari dei Knicks. Di Spurs, poco o nulla. Anche se, con quella maglia, giocava George Gervin, tiratore sopraffino che avremmo poi visto anche in Italia. Vinceva la classifica dei cannonieri, George, ma San Antonio restava ai margini. Ci sarebbero voluti Gregg Popovich e l’ammiraglio Robinson, Duncan e Ginobili e Parker per trasformare quella società in un club capace di vincere le “finals”.

Da stanotte, con quella maglia che si gioca il titolo, c’è anche un pezzetto di Italia. Pensarlo trent’anni fa, sarebbe stato impossibile. Se non in un sogno lontano. Un po’ come quando, alla fine del diciannovesimo secolo, si vagheggiava l’idea di arrivare sulla luna. L’uomo, sulla luna, c’è arrivato davvero. Ecco, Marco da stasera giocherà per se e per chi vuole farsi accompagnare da lui, alla conquista della luna.

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