La malasanità uccide all’incirca cinquemila persone l’anno in Italia, secondo le stime più ottimistiche, e mia moglie fu una di loro. La mia rabbia esplose e non va via, accompagnata dal dolore insopportabile della perdita, da quando ho scoperto l’errore in sala operatoria: il professore che la operò si guardò bene dall’ammettere di aver sbagliato tutto e, con la sua omertà, ci precluse ogni possibilità di un ipotetico rimedio. Ho pensato a cose ignobili, ho percorso strade violentissime nella mia mente, ho accarezzato l’idea di farmi giustizia da solo. Il mio essere civile ha avuto la meglio, dopo una strenua battaglia.
Ho quindi imboccato le vie impervie della giustizia. Avvocati poco professionali mi hanno fatto perdere mesi di tempo prezioso, uno dei legali più conosciuti in Italia è stato rapido e lapidario nel negarmi assistenza: “Non vincerai mai contro la casta dei chirurghi professori universitari, scrivi un libro”. Lo sto facendo, non so bene con quale risultato.
Dopo un’attenta selezione ho trovato tre legali e tre consulenti medico legali che mi stanno accompagnando nel ricorso civile e nella denuncia penale. Lo sforzo per allontanare il senso di impotenza rimane comunque enorme: le istituzioni dello Stato non rispettano le leggi dello Stato, le consulenze sono spesso pilotate, la ricerca della verità dei fatti è solo episodica ed affidata al caso. I tempi sono pachidermici.
Il cittadino cosa può fare? Non giustifico la violenza ma non giustifico neppure un sistema sanitario che risparmia su una risonanza magnetica che avrebbe potuto svelare le caratteristiche di malignità incapsulate in un fibroma per il quale mia moglie venne operata, non giustifico un sistema sanitario che prescrive terapie a base di tachipirina per lenire le sofferenze oncologiche terminali e risparmiare sulla più costosa morfina.
Non giustifico la direzione generale ospedaliera che rifiuta di consegnarmi le copie degli originali delle cartelle cliniche, che vennero modificate e sostituite. Non giustifico il presidente della Regione, i componenti del governo, il presidente della Repubblica ai quali mi sono rivolto per chiedere giustizia: il caso può essere giudicato irrilevante, certo non per noi, però non lo è neppure per le istituzioni che dovrebbero intervenire quando una struttura pubblica rinnega i propri obblighi, sanciti dalle leggi. Se si cambiano i referti si entra nella logica di Orwell in 1984: si scrive solo la storia che fa comodo, prassi indegna in una democrazia.
Se avessi qualche anno in meno e qualche euro in più chiamerei a rispondere del loro lavoro, davanti ai tribunali, anche i consulenti della controparte con i loro tentativi di gettare fumo negli occhi della giustizia. È stato addirittura elogiato l’operato della struttura sanitaria per il sequenziamento del Dna di mia moglie come approfondimento meritorio. Lo avevo disposto io, a mie spese, in contrasto con quanto consigliato dai pubblici sanitari. Ma ci sarebbe molto altro da contestare, in primis il mancato rispetto delle linee guida.
Non giustifico il magistrato che si è scordato, un anno fa, di disporre l’accertamento sulla veridicità delle cartelle cliniche e le conseguenti ipotesi di reato di omissioni d’atto d’ufficio e/o falso. Continua a fidarsi dei suoi interessati consulenti, (risibili le loro relazioni tecniche), che fanno parte di comitati scientifici e pubblicano studi assieme a colui che guidò l’intervento chirurgico.
Un muro di gomma respinge ogni intromissione, le cause costano anni di sofferenza e decine di migliaia di euro: così oggi si rischia di scontare l’inevitabile senso di impotenza e la rassegnazione via via più accentuata nelle persone.
Resta certa la sconfitta anche per l’intero Paese al quale servono più polizia all’interno degli ospedali, più garanzie per il personale sanitario, più tutela per i pazienti e tempi meno problematici nella giustizia, come vaccini contro l’espandersi del virus della violenza. Il resto è aria fritta.
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