Ultima chiamata per evitare la guerra

UNO STRIKE limitato a due-tre giorni su una cinquantina di obiettivi non avrà un effetto decisivo sul piano militare, non metterà in crisi il regime di Assad, non aiuterà le forze ribelli e anche senza incendiare la polveriera e causare una conflitto generalizzato avrà conseguenze negative per gli Stati Uniti e l’Occidente nell’intero Medioriente. In […]

UNO STRIKE limitato a due-tre giorni su una cinquantina di obiettivi non avrà un effetto decisivo sul piano militare, non metterà in crisi il regime di Assad, non aiuterà le forze ribelli e anche senza incendiare la polveriera e causare una conflitto generalizzato avrà conseguenze negative per gli Stati Uniti e l’Occidente nell’intero Medioriente. In altre parole: tatticamente ininfluente, strategicamente un disastro.
Il dubbio inizia a fasi strada anche nell’amministrazione Obama dove alla certezza che sia moralmente indispensabile dare una risposta e che sia essenziale farlo usando il linguaggio delle armi per dare un segnale chiaro anche e soprattutto a Teheran, si sta consolidando il convincimento che se strike sarà, dovrà essere più robusto di quanto originariamente ipotizzato. In questo senso va letto lo spostamento della portarerei Nimitz, che affiancherà i quattro cacciatorpediniere della classe Arleigh Burke nell’attacco alla Siria.
 
 Il piano del Pentagono prevede ora ondate di attacchi per una decina/quindici giorni condotte sia con missili da crociera Tomakawk lanciati da navi e sottomarini che con missili da crociera Jassm lanciati da aerei dell’Us Air Force e Jsow lanciati da aerei della Marina. Possibili ma improbabili anche attacchi con aerei dell’Air Force e della Marina con bombe ‘intelligenti’. Gli obiettivi sono un centinaio di obiettivi: centri di comando e controllo, i sei aereoporti militari principali, radar, unità di artiglieria missilistica, gli impianti di produzione di missili e armi chimiche. Nulla rispetto alle 10 mila missioni che in 9 mesi misero in ginocchio il regime di Gheddafi, ma pur sempre un colpo serio, che dovrebbe costituire la premessa della fase due alla quale stanno lavorando la Cia e i servizi sauditi e giordani: armare e addestrare una credibile forza ribelle che non sia in mano alla galassia estremista salafita.

L’ONDATA di proteste potrebbe spingere il Congresso a bloccare il via libera a Obama _ un rischio reale visto che secondo il Washington Post, che ha contattato372 membri del congresso su 435, ci sono 103 deputati  decisi a votare contro e altri 102 che sono orientati a farlo: il che con una maggoranza a 217significa che il rischio è concreto _ ma paradossalmente gli è stato utile a capire che la bacchettata sulle dita ad Assad sarebbe la risposta peggiore.

La Casa Bianca ha ora un piano che ha un minimo di logica militare, se non altro per avere il voto dei repubblicani. Ma la strategia è una altra cosa, e qui i motivi per non effettuare lo strike restano. La diplomazia è ancora l’arma piàù saggia nella polveriera mediorientale e farlo rafforzando militarmente l’opposizione per portare il regime di Assad al tavolo della trattativa sarebbe probabilmente efficace.

 In questo senso si muoverà decisamente la diplomazia europea in questo fine settimana, proponendo alle due parti un accordo che prevede l’abbandono del potere entro tre mesi da parte di Assad, un coverno di coalizione ed elezioni entro 12 mesi. Ai primi sondaggi Assad si è detto interessato ma ha chiesto di non essere arrestato o processato per crimini di guerra: una assicurazione che gli americani non sembrano disposti a dare, a meno che dal Congresso non arrivi un “no” all’autorizzazione chiesta da Obama. A quel punto il presidente potrebbe confermare lo strike ma fare una ultima proposta ad Assad: via subito e governo di coalizione, ma ok al suo esilio in Russia. Uno scenario possibile, auspicabile, ma dannatamente improbabile.

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