Sisi, il generale che guarda al califfato

Nominato dal presidente Morsi, è stato colui che l’ha fatto arrestare. Noto per essere un amico degli americani, ha ripetutamente  ignorato i caldi suggerimenti del capo del Pentagono Cuck Hagel e dello stesso presidente Obama.  Ha una sua ambiziosa agenda, il generale Sisi. Ma per capire chi davvero è Abdel Fattah al Sisi, il cinquantottenne  […]

Nominato dal presidente Morsi, è stato colui che l’ha fatto arrestare. Noto per essere un amico degli americani, ha ripetutamente  ignorato i caldi suggerimenti del capo del Pentagono Cuck Hagel e dello stesso presidente Obama.  Ha una sua ambiziosa agenda, il generale Sisi. Ma per capire chi davvero è Abdel Fattah al Sisi, il cinquantottenne  ministro della Difesa, vicepremier e comandante delle forze armate egiziane che è il deus ex machina del governo golpista di transizione bisogna leggere la sua tesi di laurea scritta nel 2006 per il master all’Us Army war college in Pennsylvania. Foreign Affairs l’ha fatto.

Il titolo della tesi è innocuo: “La democrazia in Medio Oriente”. Ma il testo è illuminante sulla sua visione del mondo. Nel paragafo di apertura Sisi sottolinea la centralità della religione nella politica della regione, sostenendo che «perchè la democrazia abbia successo in Medio Oriente questa deve mostrare rispetto per la natura religiosa della cultura e cercare pubblico supporto dai leader religiosi, che possono aiutare a radicarla». Egiziani e gli altri arabi vedranno la democrazia positivamente, scrive «se la democrazia sosterrà la base religiosa invece che svalutarla creando instabilità». «Il secolarismo —  scrive — è improbabile che sia accolto positivamente dalla vasta maggioranza di mediorientali». Sisi poi condanna i governi secolarizzati «perchè emarginano larghi strati della popolazione che credono che la religione non debba essere separata dal governo». Separazione che è chiaramente un errore, secondo lui.  «La democrazia — argomenta — non può essere capita nel Medio Oriente senza una comprensione del concetto di Califfato (il periodo di 70 anni  nel quale i musulmani furono guidati da Maometto e dei suoi immediati successori. Nda): ristabilire questo tipo di leadership è ampiamente riconosciuto come l’obiettivo di ogni governo nel Medio Oriente. Il meccanismo politico centrale di questo sistema sono l’al bi’at (fedeltà al governante) e la shura (la consultazione del governante con i suoi collaboratori).  Quanto alla separazione tra poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, è accetabile solo se tutti e tre sono sufficientemente islamici».

Il quadro (sconfortante) che ne esce è quello di un autoritarismo paternalista con forti connotazioni islamiche. Qualcosa di simile al governo di quel generale Zia ul-Haq che nel 1997 rovescio il governo democraticamente eletto di Ali Bhutto (che come Morsi con Sisi, ingenuamente lo considerava “una sua creatura”) e per undici anni diventò dittatore in Pakistan, avviando una islamizzazione della società.

Ad un giornalista che gli chiedeva come potesse un militare correre per la presidenza, il  portavoce di al Sisi replicò: «Potrebbe se si dimettesse dall’esercito». Il che certo non sarà difficile. Alle prossime elezioni presidenziali, che siano nel 2013 o nel 2014, è più che probabile che alla Sfinge di Giza si affianchi la sfinge Abdel Fattah al Sisi che — sia detto per inciso — tra i suoi più dedicati sponsor ha un paese presso il quale fu per alcuni anni addetto militare. Quell’Arabia Saudita che è  custode della “vera fede” sunnita e non certo un campione di democrazia.

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