06. Route clearance package

dall’inviato Alessandro Farruggia

SHINDAND (Afghanistan)
“Soddisfatto? Sarò soddisfatto quando tornerò a Pistoia con tutti i miei uomini, una volta fatto il lavoro che ci hanno affidato”. Il colonnello Francesco Merlino, comandante del 183°Nembo della Folgore, che è di stanza nella città toscana, è un uomo concreto, dal quale dipendono 640 uomini schierati per la metà nella provincia di Herat e per metà a Shindand, l’ultima base avanzata italiana, che restituiremo all’esercito  afghano tra il 26 e il 28 gennaio.  

 il colonnello Franco Merlino con gli anziani di un villaggio

 

Dopo quella di Farah, Shindand. Il nostro continente resterà (quasi) solo nella base di Camp Arena, a Herat, in vista della chiusura della missione Isaf, a fine 2014. A Shindand — una base che sorge letteralmente attorno a un grande aeroporto costruito dai sovietici — resteranno gli afghani, 1500 americani e 35 uomini dell’Aeronautica Militare impegnati nella formazione dell’aeronautica afghana.

 
“Non è una ritirata — osserva Andrea Margelletti, presidente del Cesi e consigliere del ministro Mauro — ma un   rischieramento progressivo che ha visto consegnare le nostre basi avanzate all’esercito afghano, che per adesso le sta tenendo bene”. Chi è sul campo, conferma. “E’ normale che gli insorgenti ci provino e ci riprovino, una volta che ce ne siamo andati — osserva il colonnello Merlino — ma la verità è che il passaggio di consegne delle basi avanzate sta andando in modo ordinato, e che l’esercito afghano, pur avendo meno tecnologia di noi, ci ha messo molto impegno e molti uomini e sta facendo egregiamente. Li abbiamo addestrati noi, e poi sono guerrieri nati: i talebani non passeranno”. Anche a costo di non poche perdite.

03. Bersaglieri controllo del territorio come oggetto avanzato“Che ci sia attività da parte dell’insorgenza, che qui è prevalentemente costituita da bande criminali — spiega il generale Michele Pellegrino,  comandante della Brigata Aosta e del comando regionale Ovest della missione Isaf —  è una realtà, ma non è tanto determinato dal fatto che ce ne stiamo andando. Il punto è che  nel sostituirci gli afghani ci mettono molto impegno, non si limitano a proteggere le basi ma vogliono controllare il territorio: il che fa pagare loro un prezzo, ma fa anche ben sperare per il futuro. Hanno motivazioni, volontà. Del resto, in questi mesi abbiamo condotto 40 interventi a supporto a operazioni guidate e condotte dalle forze di sicurezza afghane. Il che la dice lunga sulla loro crescita, sulle capacità operative acquisite e sulla responsabilità che si stanno assumendo”. “Il vero successo degli italiani _ sottolinea Margelletti _ non è stato insegnare agli afghani a sparare meglio, ma a condividere lo stesso progetto. Non abbiamo calato un modello dall’alto, gli abbiamo dato le competenze e gli strumenti per crescere seguendo una loro via”. 

 

 
Ma in Afghanistan nulla è garantito. Le elezioni di primavera _ la data prevista è il 5 aprile _ saranno un momento delicatissimo. Nel quale finisce l’era Karzai e ne inizia una altra, della quale nessuno sa dire oggi quali saranno i confini e che scenari aprirà. «Il problema — spiega il generale Giorgio Battisti, capo di stato maggiore di Isaf, a Kabul —  non è tanto militare, ma politico. L’insorgenza afghana oggi non è paragonabile a quella siriana, fa danni ma è gestibile.  Le forze di sicurezza afghane che hanno ormai 380 mila effettivi, possono controllarla. Il problema è la trasizione dall’era Karzai alla successiva. Una transizione delicata come quella del ’48 in Italia». «Con l’uscita di scena del presidente Karzai dopo  12 anni — prosegue — ci sarà un colossale spoil system e ci saranno inevitabili tensioni tra le componenti della società afghana, anche intense, che potrebbero mettere in secondo piano la lotta all’insorgenza». Un pericolo reale.

E’  su questo che contano i signori della droga, la mafia del contrabbando, i leader tribali pashtun più radicali, i talebani e i loro amici pakistani e quaedisti. Oggi militarmente deboli, questa è la loro vera, unica speranza. Solo la corrotta classe politica di Kabul, implodendo in guerre per clan e delegittimandosi ulteriormente, può perdere una guerra già vinta. Come gli americani buttarono a mare il consenso che avevano dopo la cacciata dei talebani, aprendo la strada alla creazione di una insorgenza che è stata per anni molto forte, adesso la classe politica _o meglio, i gruppi di potere_ di Kabul può suicidarsi e riportare il paese indietri di vent’anni, agli anni della guerra civile e di una dissoluzione che sarebbe catastrofica soprattutto per i dannati di sempre. Quella povera gente che in Afghanistan è i 2/3 della popolazione e che meriterebbe qualcosa di meglio di quel che ha avuto negli ultimi 34 anni: guerra e ancora guerra ancora guerra.