Articolo pubblicato il 24 aprile 2015 su QN (Carlino, Nazione e Giorno)

E meno male che Enrico Letta doveva usare il cacciavite. Da quando ha annunciato davanti a Fabio Fazio di lasciare il Parlamento (precisando «questo Parlamento»), al posto del cacciavite ha deciso di usare il piccone. All’improvviso, il Letta gabbato da quell’#Enricostaisereno twittato dal rivale, ha subìto una sorta di mutazione genetica. La sua missione: smontare pezzo per pezzo la narrazione renziana.
Il titolo sonnacchioso del suo libro, Andare insieme, andare lontano, svia. Perché l’obiettivo – dai tweet fino alle interviste al Financial Times e a Les Echos – sembra essere solo uno: la vendetta.
«Il racconto del premier è un Paese che non c’è. È come metadone, non aiuta a stare meglio», ha detto ieri a Radio 24. E giù stilettate al Jobs Act («un passo avanti, però non sufficiente») a Triton («spero si faccia un Mare nostrum europeo») e, soprattutto, all’Italicum.
Proprio la legge elettorale, primo vero scoglio per il premier, è diventato il bersaglio preferito di Letta. «Non so se lo voterò, vediamo come sarà», ha detto ieri. Di certo, «ci vuole una maggioranza larga. Una legge elettorale approvata a maggioranza stretta è successo solo col Porcellum ed è stato un disastro».
Ma le parole al veleno di Letta vanno decifrate analizzando il contesto. Primo: Letta ha annunciato di mollare il Parlamento con cinque mesi d’anticipo. Perché? Facile, Renzi si trova nel guado per l’Italicum. Coincidenza? O forse sarebbe meglio dire tempismo. Lo stesso della Missione incompiuta di Romano Prodi. Il Professore, da tempo fuori dalla politica, è tornato in scena con un libro e varie interviste. Il cavallo di battaglia? La bocciatura del ‘Partito della Nazione’. Ieri l’ha fatto con una battuta: «Il Pd di Renzi figlio dell’Ulivo? Non sono un ginecologo». E, a furia di gag al vetriolo, c’è quasi da credere che Letta e Prodi stiano provando a creare una piattaforma anti-Renzi. Tant’è che già circola la voce di gruppi ulivisti alla Camera e al Senato. Il Professore, dalla sua, si dice già pronto «al magazzino dei rottami», ma è anche vero che butta lì la necessità «di unire tutti i riformismi».
Di certo non c’è nulla, ma i detrattori di Renzi sanno che trovare due leader al prezzo di uno non è facile. Intanto c’è una quasi sicurezza: Letta non si ritira alla scuola delle élite per rimanerci. Ma per tornare. E, a modo suo, tira in ballo anche il Professore: «L’Ue avrebbe potuto nominarlo per occuparsi di Libia». Solo stima? Forse.
Il manifesto politico, intanto, è già scritto. Niente Leopolde, né intrighi alla House of Cards (serie amata da Renzi, ma detestata da Letta), né politica dell’uomo solo al comando. «Governare non è comandare», ripete l’ex premier con un mantra caro alla minoranza Pd. E ricorda, candido, quel «disagio di fare il presidente non eletto». Ma la ciliegina sulla torta arriva con la citazione di Kafka: «C’è un solo peccato capitale: l’impazienza. Per esso l’uomo è stato cacciato dal paradiso ed è per questo che non ci torna». Letta, che impaziente non è, forse spera di aver diverso destino. Chissà se con sfoghi come questi – «nel Novecento regimi di ogni colore politico hanno alimentato il mito dell’efficienza e del decisionismo. Ma erano, infatti, regimi» – riuscirà a elaborare il lutto. Anzi, peggio: la sconfitta.

Rosalba Carbutti

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