Da Bossi a Calderoli, vent’anni d’insulto libero

Articolo pubblicato su QN (il Resto del Carlino, La Nazione e il Giorno) il 16 luglio 2013. SE ANTONIO CASSANO, invece del calciatore, avesse fatto il parlamentare, si sarebbe ritrovato materiale da vendere per le sue «cassanate». Sì perché se oggi fa discutere la frase razzista di Roberto Calderoli sulla Kyenge («assomiglia a un orango») […]

Articolo pubblicato su QN (il Resto del Carlino, La Nazione e il Giorno) il 16 luglio 2013.

SE ANTONIO CASSANO, invece del calciatore, avesse fatto il parlamentare, si sarebbe ritrovato materiale da vendere per le sue «cassanate». Sì perché se oggi fa discutere la frase razzista di Roberto Calderoli sulla Kyenge («assomiglia a un orango») con autodifesa allegata («io amo gli animali), non si tratta che dell’ultima «calderolata» che il vicepresidente leghista del Senato può vantare nel proprio curriculum. Ma prima di lui, e più di lui, c’è un elenco da far invidia a calciatori sboccati, ultras da stadio e bar sport da brividi.

Umberto Bossi, in quanto a insulti, si può considerare un maestro. Il Senatùr, infatti, è da più di un ventennio che si allena tra «celodurismo», «Roma ladrona» e gestacci che farebbero impallidire perfino Beppe Grillo, altro dall’invettiva facile. Difficile dimenticare, ad esempio, quando apostrofò un’ignara signora che aveva esposto la bandiera italiana alla finestra: «Il tricolore lo metta nel cesso». Frase che gli costò una denuncia per vilipendio. Ma non solo. Le frasi choc sugli immigrati — che, rilette oggi, fanno apparire Calderoli quasi come un’educanda — si sprecano. E sotto le sue grinfie sono finiti un po’ tutti, dagli odiati romani («SPQR? Significa ‘sono porci questi romani’») a Berlusconi-Berluskaz fino a Brunetta «il nano di Venezia». Ed è proprio il capogruppo del Pdl a riuscire in un’arte che non tutti riescono a eguagliare: essere presi di mira da sinistra a destra. Mica facile.

Se Massimo D’Alema lo definì «un energumeno tascabile», l’ex ministro Giulio Tremonti si limitò a un semplice «cretino» e, nel 2009, si lasciò scappare che «l’avrebbe preso a calci nel c…».

Grillo, dalla sua, si era limitato a definirlo «Brunettolo». Niente in confronto ai vari «vaffa», «parassiti», «virus», «zombie» che, in genere, dispensa agli avversari politici (e ai giornalisti) con generosità. E niente neanche rispetto ai nomignoli sprezzanti che regala ai vari leader. Dallo «Psiconano» (Berlusconi) a Rigor Montis (Monti), passando per «Capitan Findus» Letta, «Gargamella» Bersani, l’«Ebetino di Firenze» (Renzi), il «supercazzolaro» Vendola fino a «Morfeo» Napolitano.

Ma se il leader 5 Stelle mischia volgarità a ironia da comico professionista, Silvio Berlusconi durante la sua lunga carriera da premier con le sue uscite infelici ha rischiato addirittura delle crisi diplomatiche: dallo Schultz «Kapò» all’Obama «abbronzato» fino all’irriferibile commento sulla Merkel. L’offesa, però, come un boomerang, gli tornò indietro dalla «fedele» Minetti che lo descrisse in modo altrettanto irriferibile.

Parole forti sono state usate anche da Franco Battiato che, parlando di «tr… in Parlamento», ha perso il posto da assessore, mentre rimane storica la lite del 2010 tra Alessandra Mussolini e Mara Carfagna che apostrofò la collega come «vajassa». Chiude (con una parolaccia, ovvio) Matteo Orfini, che, giusto qualche giorno fa, ha definito Gentiloni «una m…» (poi trasformata in «sciacallo»).

I padri nobili del Pci — da Togliatti ad Amendola — abituati a usare metafore tipo «pidocchi finiti nella criniera di un cavallo da corsa» o espressioni tipo «contrabbando revisionista» si sentirebbero, senza dubbio, in un altro mondo.

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