Bersani e quei mesi terribili

Articolo pubblicato il 6 gennaio 2013 su QN (Carlino, Nazione e Giorno). «Non racconteremo favole». Era il 2 dicembre 2012 e Pier Luigi Bersani aveva appena stravinto le primarie di coalizione del Pd contro il rottamatore. «Ora Pier Luigi è fortissimo», commentava il padre nobile dei democratici, Romano Prodi. L’atmosfera era quella dell’inizio di una grande […]

Articolo pubblicato il 6 gennaio 2013 su QN (Carlino, Nazione e Giorno).

«Non racconteremo favole». Era il 2 dicembre 2012 e Pier Luigi Bersani aveva appena stravinto le primarie di coalizione del Pd contro il rottamatore. «Ora Pier Luigi è fortissimo», commentava il padre nobile dei democratici, Romano Prodi. L’atmosfera era quella dell’inizio di una grande marcia senza ostacoli verso Palazzo Chigi. (Quasi) tutti pensavano che la campagna elettorale partita dalla pompa di benzina di Bettola dove lavorava con il padre, simbolo di un passato proletario dal sapore di terra, Emilia e feste dell’Unità, condita da uno slogan di sapore crozziano («smacchieremo il Giaguaro»), sarebbe bastata per sbaragliare Silvio Berlusconi e Beppe Grillo.

Il 26 febbraio 2013 il leader Pd dovette ricredersi. E quella che sembrava una vittoria già scritta, per Bersani si trasformò in un boomerang che gli fece passare i tre mesi più brutti della sua storia politica. Berlusconi agitando il vessillo dell’abolizione dell’Imu aveva quasi recuperato lo svantaggio e a entrare trionfanti in Parlamento non erano gli uomini del leader Pd, ma i barricaderi grillini con in mano un apriscatole. Per Bersani, il Pd, i militanti e tutti coloro che avevano creduto nella sua «Italia giusta» a metà tra Guccini e Vasco Rossi, fu una doccia gelata.

La conferenza stampa per giustificare la paralisi in cui il deludente risultato alle politiche aveva gettato il Paese si ricorda per l’infelice frase: «Siamo arrivati primi, ma non abbiamo vinto».

Bersani, senza quasi più metafore da spendere, ripeteva, torturando in modo ossessivo gli occhiali: «Non abbandono la nave, la ruota deve girare».

Il pallore del segretario Pd significava l’inizio della fine. Da quel momento — a parte l’elezione di Boldrini e Grasso — fu un’infilata di errori, schiaffi, tradimenti con una martellante colonna sonora che si rincorreva dal web ai giornali, dai tg al Palazzo: «Se avesse vinto Renzi…».

Bersani si ritrovò solo. Il Quirinale a marzo gli affidò un preincarico per formare un governo che finì in bolle di sapone. L’allora segretario del Pd fece di tutto pur di non piegarsi alle larghe intese con Berlusconi («la nostra gente non capirebbe») e confezionò 8 punti su cui far convergere i 5 Stelle. Risultato: gli sfottò di Grillo e uno streaming penoso col terribile duo Crimi-Lombardi.

Ma il peggio doveva ancora venire con l’elezione del capo dello Stato. Ad aprile Bersani salì sulle montagne russe e dopo aver incassato l’autogol di Franco Marini e le 101 pugnalate a Romano Prodi si ritrovò a chiedere a Napolitano di restare al Colle con le dimissioni da segretario del Pd in tasca.

Il resto è storia. Le larghe intese, Letta premier e i bersaniani di ferro in prima fila alla Leopolda di Renzi, incoronato leader del Pd. «La ruota gira, nella ditta resto anche da mozzo», ha sempre ripetuto Bersani. Ieri l’affetto della sua ditta, dopo tante pugnalate, lo ha fatto sentire ancora una volta un capitano.

Rosalba Carbutti

Twitter@rosalbacarbutti

 

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