Di Lorenzo Bianchi

“l’Iran arricchisce l’uranio a livelli di purezza che solo i Paesi che producono bombe  stanno  raggiungendo. La situazione è molto preoccupante”.  Rafael Grossi, direttore generale dell ’Aiea, l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta alla proliferazione delle armi atomiche, ha suonato il campanello di allarme in un’intervista al “Financial Times”.  Come se non bastasse l’impennata nella raffinazione, la teocrazia non ha risposto nulla sulla “presenza  di particelle di materiale nucleare  in tre luoghi nei quali sono state fatte ispezioni”. L’Aiea dal 23 febbraio “non ha avuto più alcun accesso ai dati”.  L’intesa  trimestrale sui controlli fra lo Stato degli ayatollah e l’Agenzia dell’Onu è scaduta  il 24 giugno 2021. Per Grossi il “margine peri rinnovarla è sempre più ristretto”. In questo frangente delicatissimo la Russia fornirà all’Iran un nuovo satellite, il Kanopus V, che garantirà un’ottima definizione dei possibili bersagli in tutto il Medio Oriente. La notizia è stata pubblicata dalla “Washington Post“. Il nuovo apparato sarà gestito da un centro costruito nella cittadina di Karaj. Il “Kanopus V” era stato concepito per usi civili, ma è stato riconvertito per applicazioni militari.

Alle 24 del 15 aprile 2021 nella centrale sotterranea di Natanz l’uranio viene arricchito al 60 per cento al ritmo di 9 grammi all’ora. E’ la capacità più alta di raffinazione  mai raggiunta dall’Iran.  L’annuncio alla tv di stato lo ha dato Akbar Salehi, il capo dell’Agenzia per l’energia atomica della teocrazia.  Questa la reazione degli ayatollah alla esplosione che il 12 aprile aveva messo a rischio il sistema interno di alimentazione elettrica di Natanz.  Poche ore prima erano state messe in opera nuove centrifughe IR-6 (nella foto). Il 17 aprile la tv di stato ha pubblicato il nome dell’autore del sabotaggio e la sua foto. Sarebbe Reza Karimi, 43 anni, nato nella città di Kashan, la più vicina all’impianto di Natanz. Con una prassi insolita l’Iran lo avrebbe segnalato all’Interpol.  Il giorno precedente il presidente Hassan Rouhani aveva definito l’avvio dell’arricchimento dell’uranio al sessanta per cento una risposta al “terrorismo nucleare di Israele”. Yossi Cohen, ex capo del Mossad, il servizio estero del controspionaggio israeliano, ha fatto filtrare ai mass media l’informazione che il materiale esplosivo era stato nascosto nel materiale edile dal responsabile dei lavori di ammodernamento. L’uomo era stato reclutato dal Mossad. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva dichiarato che l’azione non era utile alla ripresa dei negoziati  che erano ricominciati   a Vienna il 6 gennaio e che però si sono arenati in giugno dopo l’elezione del falco Ebrahim Raisi alla presidenza  del governo del Paese. Sul punto l’Aiea, l’agenzia dell’Onu per il contrasto alla proliferazione delle armi atomiche, ammette solo che è stata superata a Fordow la soglia del 20 per cento, in ogni caso molto più alta del 3,67 per cento previsto dall’intesa Jcpoa.

Il 16 gennaio 2021, alla vigilia dell’insediamento di Joe Biden. La teocrazia iraniana aveva mostrato i muscoli. In meno di tre settimane si era esibita in altrettante esercitazioni militari culminate nell’ “operazione Grande Profeta 15”, un lancio di  missili balistici che avevano colpito due obiettivi a 1800 chilometri di distanza volando da un deserto nell’Iran centrale fino all’Oceano indiano settentrionale.  Dopo quasi tre mesi un’esplosione ha fatto tremare i tunnel di Natanz. Fonti di intelligence citate dal “New York Times” hanno accreditato l’ipotesi che programma atomico iraniano  potesse subire un ritardo di almeno 9 mesi e che all’incidente non fosse estranea la mano di Israele. L’Iran ha minimizzato. Akbar Salehi ha assicurato che l’arricchimento dell’uranio  procedeva “con vigore“ grazie al sistema di alimentazione di emergenza, ha ammesso genericamente un “sabotaggio” e lo ha attribuito a Israele. Il suo portavoce Behrouz Kamalvandi ha ribadito che si è trattato di “una piccola esplosione”. Durante l’ispezione, con tutta evidenza movimentata,  fatta a Natanz dopo la deflagrazione è caduto in un buco coperto da fogli di alluminio, è precipitato per sette metri, si è fratturato tutte e due le gambe e ha battuto la testa. E’ stato ricoverato d’urgenza nell’ospedale di Kashan.

Da Gerusalemme nessuna reazione. Ma dopo aver incontrato il capo del Pentagono Lloyd Austin l’ex premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ripetuto per l’ennesima volta la sua linea intransigente nei confronti della teocrazia. “Non permetterò mai – ha garantito – che Teheran ottenga la capacità nucleare per portare a termine il suo obiettivo genocida di eliminare Israele”. Nelle stesse ore la sua intelligence ha lanciato un nuovo allarme accusando l’Iran di avere creato falsi profili sui social network che lanciano l’amo di proposte allettanti, sia di affari sia sentimentali, per attirare cittadini israeliani che poi potrebbero poi diventare l’obiettivo di attentati o di rapimenti.

Il 10 febbraio a Isfahan, nella parte occidentale del Paese,  sarebbe cominciata la produzione di uranio metallico che Francia, Germania e Regno Unito considerano del tutto inutile in centrali nucleari per usi civili.   Per la Germania, per la Francia e per la Gran Bretagna questa mossa un’ aperta violazione del Piano di azione globale congiunto (Jcpoa) del 2015 che avrebbe dovuto congelare i programmi nucleari iraniani per dieci anni. Teheran ribatte che sta solo tentando di assicurare combustibile avanzato a un reattore di ricerca della capitale. Nel 2018 l’accordo è stato denunciato e abbandonato dal presidente statunitense Donald Trump.

All’esercitazione  “Grande Profeta 15” avevano assistito il comandante dei Pasdaran Hossein Salami, il numero uno dell’aeronautica delle Guardie della Rivoluzione Amir Ali Hajizadeh e il capo di stato maggiore delle forze armate Mohammad Bagheri. Una squadriglia di droni armati sviluppati in Iran aveva preso di mira i sistemi difensivi del potenziale nemico.  Poi erano piovuti missili terra-terra a combustibile solido “Zelzal” e “Dezful” della classe “Zolfaqar” capaci di colpire a 700 chilometri di distanza.  Il giorno dopo dal deserto sono partiti i missili balistici di varie classi che avrebbero centrato i due obiettivi nell’Oceano indiano settentrionale. In precedenza il Parlamento, dominato dai conservatori , aveva deciso di arricchire l’uranio fino al 20 per cento travolgendo la soglia del 3,67 fissata dagli accordi del 2015 firmati da Iran, Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Germania e Ue. Teheran ora avrebbe a sua disposizione circa 120 chili all’anno di materiale fissile.

Il 27 novembre 2020 a est di Teheran e in pieno giorno un robot comandato da remoto, se si deve credere alla versione dell’agenzia dei Pasdaran “Fars”, aveva eliminato il padre dell’atomica degli ayatollah Mohsen Fakhrizadeh. Sulla fine di Fakhrizadeh esistono due versioni molto diverse.  La “Fars” ha sostenuto che per l’operazione, durata solo tre minuti, non è stato schierato nessun uomo sul terreno. Sul bordo della strada c’era un furgone Nissan. Sul cassone era montata una mitragliatrice automatica di grosso calibro comandata da un satellite. Fakhrizadeh viaggiava su un Suv blindato assieme alla moglie. Il veicolo era scortato da tre auto. La coppia era diretta verso la casa di parenti che abitano nei sobborghi di Teheran. Ad Absard, a est della capitale, la prima auto del convoglio si è allontanata  per fare un sopralluogo. Fakhrizadeh ha sentito uno schianto ed è sceso dalla vettura. In quel momento dalla Nissan sono partiti i proiettili. Tre lo hanno colpito a morte alla schiena. Subito dopo il veicolo dal quale è partito il fuoco è saltato in aria. Secondo le prime indagini Il proprietario del furgone avrebbe lasciato l’Iran il 28 ottobre.

La ricostruzione dell’agenzia del governo iraniano “Irib” è diversa: l’azione sarebbe stata condotta da un commando di dodici uomini arrivati in moto  e in auto dopo l’esplosione del furgone Nissan. Tutti sarebbero riusciti a dileguarsi.  Alcuni anni fa Fakhrizadeh era sopravvissuto a un attentato che, secondo il regime, era stato organizzato dal Mossad, il controspionaggio israeliano all’estero. L’intelligence israeliana sospetta che lo scienziato abbia continuato le sue ricerche sull’uranio, sugli esplosivi ad alta potenza e sulle testate dei missili all’interno della “Organizzazione per l’innovazione e la ricerca difensiva”, in sigla Spnd .Le due versioni sulla sua morte sembrano il sintomo contrasti nel regime che sono rimasti sottotraccia dal 2009.

Il 18 giugno 2021 59 milioni di iraniani hanno votato per il nuovo capo dell’esecutivo che è subentrato a Hassan Rouhani, la cui volontà di tendere la mano all’Occidente si è scontrata con le chiusure di Donald Trump . La pandemia di Covid 19 (l’Iran è il Paese più colpito del Medio Oriente) ha aggravato la crisi economica.  Come era ampiamente previsto la palma della vittoria è andata a Ebrahim Raisi, 60 anni, responsabile della magistratura e delfino della Guida Suprema, il Grande Ayatollah Ali Khamenei, il numero uno della teocrazia che detiene le vere leve del potere. Nel 1988 il pubblico ministero Raisi era membro del cosiddetto “Comitato dei 4” che decise di mandare a morte fra 2 e 3 mila prigionieri politici. Dopo la rivolta contro il rincaro della benzina esplosa nel novembre 2019 nel ruolo di presidente della Corte Suprema, nel quale era stato appena insediato, Raisi è stato il regista della repressione che è costata la vita a 300 dimostranti. Ha ottenuto 17,9 milioni di voti, solo due in più di quelli conquistati quattro anni fa quando fu sconfitto dal riformista Hassan Rouhani. Ma il dato più imbarazzante per il nuovo capo dell’esecutivo è stato l’affluenza ai seggi. Solo il 48,8 per cento degli elettori ha depositato la sua scheda nell’urna. E’ la percentuale più bassa dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Le schede bianche o nulle sono state il 13 per cento. Raisi si è insediato il 3 agosto. Il presidente russo Vladimir Putin è stato il primo a congratularsi. Nella sua conferenza stampa di presentazione ai media stranieri Raisi, che indossava il turbante nero dei discendenti da Maometto, ha garantito che continuerà a trattare sui programmi nucleari per ottenere la revoca delle sanzioni contro il suo Paese. “Sosterremo ogni iniziativa – ha annunciato – che garantisca i nostri interessi nazionali, ma non negozieremo all’infinito”.  Spera di riuscire scongelare i dieci miliardi di dollari del suo Paese bloccati in  varie banche  per via delle sanzioni americane. Alla domanda se incontrerà il presidente statunitense Joe Biden ha risposto con un secco “no”. Disco rosso anche all’allargamento del negoziato al programma missilistico degli ayatollah e alle attività delle milizie filo iraniane in Iraq, in Siria e in Libano. L’unica apertura riguarda la ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita interrotte nel 2016. La chiusa è stata un monito a Israele: “Prima che dell’Iran dovrebbe aver paura del popolo palestinese oppresso e della resistenza”. “L’Iran – si è congedato – ha sempre difeso gli oppressi”. L’emittente israeliana “Channel 13” ha pubblicato la notizia che alcuni droni avrebbero colpito un sito nel quale vengono prodotte parti per le centrifughe che raffinano l’uranio a Karaj, 40 chilometri a nordovest di Teheran. Qualche ora prima i social media collegati ai Pasdaran avevano riferito che nella stessa città  era stato sventato un tentativo di sabotaggio contro un edificio dell’Aiea. Per l’emittente pubblica “Irib” non ci sono stati danni né feriti.

All’interno del Paese la teocrazia tenta qualche timida innovazione. Per la prima volta dal 2019 il 28 gennaio duemila donne hanno potuto assistere allo stadio Azadi alla partita di calcio della loro nazionale con l’Iraq. L’Iran ha vinto per una rete a zero e si è qualificato per i mondiali. L’accesso all’impianto però è stato autorizzato solo su invito. L’unico precedente, in 40 anni di teocrazia, risaliva al 2019 ed era dovuto a una precisa richiesta della Fifa. “Non avevo mai potuto vedere  una partita all’Azadi Stadium, ho comprato i biglietti on line a ho ricevuto un sms di conferma, sono felice” ha detto una tifosa che ha dichiarato all’agenzia “Isna” di chiamarsi Mahya, di avere 26 anni, e di essere laureata in ingegneria civile. Le appartenenti all’altra metà del cielo occupavano un settore separato da quello degli uomini e sono entrate passando per un ingresso riservato a loro e vigilato da poliziotte. Il divieto di entrare negli stadi è in vigore dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Nella Sharia, il corpus delle leggi coraniche, non c’è nessuna proibizione specifica, ma il clero più conservatore sostiene che in questo modo si tutelano le appartenenti al gentil sesso dagli atti vandalici, dalle espressioni volgari e dai gesti violenti, il corollario abituale delle partite di calcio.  Nel settembre del 2019 Seher Khodayari, 29 anni, tifosa dell’Esteqlal allenato dall’italiano Andrea Stramaccioni, aveva tentato di entrare nello stadio Azadi travestendosi da uomo per assistere alla partita della sua squadra contro l’al Ain degli Emirati Arabi Uniti. Un selfie imprudente l’aveva portata nel penitenziario femminile di Gharchak Varamin. Dopo aver saputo dal procuratore che era stata condannata a sei mesi di carcere per oltraggio al pudore la giovane tifosa si diede fuoco. Le ustioni di terzo grado nel 90 per cento del corpo le furono fatali.