Dieci anni or sono a Pentedattilo, tra i ruderi e i cardi del paese abbandonato, due gite scolastiche fatalmente si incontrarono. E poiché le strade del borgo fantasma sono strette e scoscese, le due guide turistiche si incontrarono sul belvedere per decidere di far partire le rispettive visite l’uno dal castello in alto, l’altro dalle case in basso. Andò bene fino a mezzogiorno quando, davanti alla graziosa chiesetta che domina il belvedere, i due gruppi inevitabilmente di incrociarono. In uno, proveniente da Crotone, c’era mia sorella Antonietta. Nell’altro gruppo, la quarta D di un liceo napoletano, c’era invece Pietro, il mio futuro cognato.
I due si videro e, manco a dirlo, ebbero un colpo di fulmine. Così al termine di quel giorno, scambiandosi i contatti, giurarono che lì, proprio lì a Pentedattilo, e in quella chiesa abbandonata, un giorno si sarebbero sposati. Una cosa detta per dire, ci mancherebbe! Resi smielosi da Cupido, tra un bacio e un morso, di nascosto dai professori, nell’euforia ormonale dei sedici anni. Tanto più che, pure a voler credere nei simboli, c’è da considerare che Pentedattilo era e rimane davvero un borgo fantasma. Un ex centro abitato, non certo il set di un parco avventure. Da decenni abbandonato, assolato, cadente, benché oggetto da qualche tempo di un timido turismo, è un posto del malagurio. I discendenti del borgo, un tempo fiorente e caratteristico, così arroccato sul dorso scosceso del Monte Calvario, partire dal 1783 in seguito a un terremoto iniziarono ad andarsene. Un’emorragia umana che durò per tutto l’Ottocento e riprese poi negli anni negli anni Sessanta, quando gli ultimi residenti si spostarono a valle, nel territorio di Melito di Porto Salvo, vista l’impossibilità di introdurre le auto tra quelle viuzze così strette e scoscese.
Cause ufficiali dell’abbandono? Intanto i rischi di crollo, visto che Pentedattilo, che in greco antico vuol dire cinque dita, sorge proprio sotto a un caratteristico spuntone originariamente a cinque dita: immensi cilindri di roccia e arbusti, pressoché impossibili da scavare, nel cui palmo più a valle, tra le pieghe di pollice e indice, sorgono le sue case. Non avevano fatto i conti, però, i magnogreci che fondarono il paese, con i turbamenti dell’inquilino sotterraneo. Che dorme il più del tempo, salvo svegliarsi, ciclicamente e drammaticamente, per scuotere con forza la sua mano anchilosata, distruggendo case e mangiandosi vite umane.
La furia del terremoto ha distrutto nel tempo già due dita. Ma tre ne rimangono, ancora oggi, a incombere minacciose sulle case. E una maledizione ancora in vigore vaticina che, prima o dopo, il gigante si risveglierà ancora e vorrà scuotere la sua mano ormai monca e anchilosata, per finire il lavoro. Anche per questo lo spopolamento fu lento e inesorabile. Pentedattilo dapprima perdette il Comune, poi la parrocchia, quindi anche gli ultimi abitanti. Dagli anni Sessanta in poi, per almeno tre decenni, nessuno ha più messo piede in quel posto se non per curiosità, a suo rischio e pericolo. Solo un pittore, uno straniero, che a un certo punto riparò una casa e ci si installò, entusiasta di quel wonderful lanscape e quella chiesetta così pittoresca. Ma ricevette svariate sfortune finché, a un certo punto, sparì.
“E voi davvero – ripeté don Manfredi a mia sorella e al suo promesso sposo, mentre io guardavo esausto la scena, abbandonato su una sedia -, voi davvero volete farmi riaprire quella chiesa dopo così tanti anni per celebrarci un matrimonio a Pasqua?” Antonietta alzò le braccia e gli occhi al cielo. Urlò: “LA MALEDIZIOONEE!” e lasciò la sagrestia mormorando cose irripetibili su quel mite uomo di chiesa, seguita dal suo futuro sposo Pietro e da me, stanchi e imbarazzati. Rieccoci dunque al punto e a capo.
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